ADDIO AL MANTENIMENTO AL CONIUGE SENZA REDDITO

ADDIO AL MANTENIMENTO AL CONIUGE SENZA REDDITO

Ora anche senza reddito il coniuge non ha diritto automatico all’assegno di divorzio.

Il divario economico tra gli ex coniugi non basta più per ricevere gli alimenti. Non c’è più alcun automatismo tra assenza di reddito e alimenti. Fino a poco tempo fa al coniuge senza reddito – generalmente la moglie – bastava presentare al giudice la busta paga, o dimostrare di non lavorare, per ottenere subito l’assegno di mantenimento. Ora la donna deve dimostrare di essersi sacrificata per la famiglia, di aver cioè rinunciato alla carriera per badare al marito e ai figli: solo così può sperare di essere mantenuta.

Lo ha chiarito la Cassazione con recenti sentenze (Cass. S.U. sent. n. 18287/18 dell’11.07.2018 e Cass. sent. n. 11504/17 del 10.05.2017) ma anche il Tribunale di Treviso, che con sentenza del 08.01.19 ha stabilito l’addio dell’assegno divorzile alla moglie povera.

Un coniuge senza reddito non ha più diritto all’assegno di divorzio quando:

  • è ancora giovane e può comunque trovare un posto grazie anche a una precedente formazione: si pensi alla donna di circa 30 anni, con una formazione scolastica e post scolastica o con altre esperienze lavorative alle spalle;
  • il matrimonio è stato troppo breve per tarpare le ali alla carriera della moglie: un’unione di solo due o tre anni non può aver decretato il definitivo allontanamento della donna dal mondo del lavoro;
  • ha sì svolto l’attività domestica, ma la sua scelta non è stata condivisa con il coniuge essendo piuttosto solo il frutto della propria volontà di non voler lavorare;
  • ha uno stipendio minimo per un part-time, ma le sue condizioni gli consentono di chiedere un’estensione del contratto a full time;
  • non ha dato prova che l’assenza di reddito e di occupazione sono dovute a circostanze esterne come la salute o l’impossibilità di trovare un posto.

CONTRATTO DI LOCAZIONE DI IMMOBILI: COSA SUCCEDE IN CASO DI MANCATA REGISTRAZIONE

Secondo la legge n. 311 del 30.12.2004, ogni contratto di locazione che abbia ad oggetto un bene immobile o una porzione di esso deve essere registrato presso l’Agenzia delle entrate a pena di nullità. L’obbligo, pertanto, non riguarda solamente la locazione degli immobili urbani ad uso abitativo o di quelli ad uso commerciale, ma qualsiasi tipo di immobile; unica eccezione è rappresentata dalla locazione di durata inferiore a trenta giorni durante l’intero anno.

La registrazione del contratto deve avvenire entro trenta giorni dalla data di decorrenza; i moduli di registrazione vengono forniti dall’Agenzia delle entrate e possono essere reperiti direttamente sul sito dell’Agenzia stessa. Il pagamento dell’imposta può essere corrisposto esclusivamente per l’anno o per l’intero periodo di locazione.

A questo proposito, bisogna sottolineare che tra le condizioni stabilite dal contratto di locazione, una delle più importanti è senza dubbio la durata; quando il contratto viene prorogato, perciò, è necessario procedere anche al rinnovo della registrazione. Dopo aver effettuato il prolungamento della durata del contratto, quindi, è obbligatorio comunicare all’Agenzia delle entrate l’avvenuto rinnovo; anche in questo caso, l’imposta può essere pagata per l’annualità o per tutto il periodo di proroga.

Chi è tenuto alla registrazione del contratto di locazione? Il conduttore o il locatore? Secondo la legge di stabilità 2016, la registrazione spetta al proprietario di casa, il quale deve provvedere nel limite perentorio dei trenta giorni dalla firma del contratto. Il proprietario dovrà poi provvedere entro sessanta giorni alla comunicazione dell’avvenuta registrazione all’amministratore di condominio e al conduttore

Il locatore e il locatario devono corrispondere l’imposta di registro in parti uguali. La legge ammette una diversa pattuizione in modo che sia solo il proprietario di casa a farsi carico delle spese, ma non è ammesso l’accordo contrario.

COSA SUCCEDE SE NON SI REGISTRA IL CONTRATTO DI LOCAZIONE?

Come detto poc’anzi, un contratto di locazione non registrato è nullo di diritto; ciò comporta delle precisi e gravi conseguenze, le quali vanno a discapito del proprietario: ed infatti, i canoni pagati dal conduttore senza un valido contratto di locazione sono indebiti e, pertanto, vanno restituiti per intero all’inquilino. Ma non solo.

Se il contratto di locazione non è stato registrato, il proprietario non potrà nemmeno ricorrere in tribunale per ottenere lo sfratto. Così, se il conduttore non paga il fitto e non decide di andarsene spontaneamente, l’unica cosa che potrà fare il locatore sarà di intentare un giudizio ordinario di occupazione senza titolo (ossia senza contratto), più lungo e costoso di quello previsto dalla legge per lo sfratto.

Tirando le somme, non registrare un contratto di locazione comporta numerosi svantaggi, soprattutto per il proprietario, il quale non potrà pretendere nessun tipo di pagamento, né potrà procedere ad uno sfratto. Oltre a ciò, si aggiungono delle conseguenze fiscali di non poco conto.

CONSEGUENZE FISCALI DELLA MANCATA REGISTRAZIONE

Non registrare il contratto di locazione non comporta solamente gli svantaggi sopra menzionati, ma anche una situazione di irregolarità tributaria del proprietario.

L’omessa registrazione del contratto di locazione, il parziale occultamento del corrispettivo e l’omesso o tardivo versamento dell’imposta di registro sono violazioni per le quali è prevista l’applicazione di una sanzione amministrativa.

In dettaglio:

  • per l’omessa o tardiva registrazione del contratto è prevista una sanzione che va dal 120% al 240% dell’imposta di registro dovuta;
  • per l’occultamento, anche parziale, del canone, la sanzione va dal 200% al 400% della differenza tra l’imposta di registro dovuta e quella già applicata in base al corrispettivo dichiarato;
  • per il tardivo pagamento dell’imposta, invece, la sanzione è del  30% dell’imposta versata in ritardo

DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL’UOMO ART. 19

Articolo 19. Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

RESPONSABILITA’ CIVILE E PENALE DEI FIGLI: RICADE SUI GENITORI?

Per rispondere a questo quesito, occorre innanzitutto chiarire i concetti di responsabilità civile e penale

Si ha una responsabilità civile tutte le volte in cui viene violato un obbligo previsto dal diritto privato, quello cioè che regola i normali rapporti tra soggetti. Ad esempio, per il mancato pagamento di un debito, per l’inadempimento di un contratto, per un incidente stradale senza feriti, per il danneggiamento involontario di un bene altrui (si pensi alle infiltrazioni di acqua nell’appartamento di sotto causate da una tubatura rotta), per un licenziamento illegittimo, per una costruzione troppo prossima al confine del vicino, ecc.

In tutti questi casi, l’unica conseguenza è, nei limiti del possibile, eliminare le conseguenze negative della condotta illecita, ripristinando lo stato dei fatti antecedente ed, eventualmente, risarcire i danni nella misura in cui ce ne siano e siano stati dimostrati.

Si ha invece una responsabilità penale quando viene commesso un fatto che la legge prevede come reato. Ad esempio si ha responsabilità penale quando non si versa il mantenimento all’ex moglie o ai figli, quando si diffama una persona in pubblico, quando si danneggia volontariamente la proprietà del vicino o la si invade, quando si compiono dei crimini informatici, quando si denuncia una persona che si sa invece essere innocente, quando si rende una falsa testimonianza nel corso di una causa, quando si simula un incidente stradale o quando invece lo si commette e da questo derivano lesioni alle persone di una certa entità, ecc.

Le conseguenze della responsabilità penale sono innanzitutto le sanzioni previste dalle singole leggi per tali condotte. Impossibile definirle in anticipo; esse comunque sono graduate in base a un criterio di proporzionalità. In secondo luogo c’è – anche qui – il risarcimento del danno per tutte le conseguenze, sul piano patrimoniale e morale, che il reato ha comportato.

I GENITORI RISPONDONO DELLA RESPONSABILITA’ PENALE DEI FIGLI?

Le regole sulla responsabilità penale sono molto più semplici di quelle sulla responsabilità civile.

In caso di responsabilità penale, infatti, a rispondere dei comportamenti illeciti è solo l’autore materiale del reato. È impossibile che una persona possa andare in carcere al posto di un’altra a meno che non sia stata compartecipe del suo crimine o, avendo l’obbligo di evitarlo, non lo ha fatto.

Tenendo conto che l’età in cui si diventa responsabili dei reati è 14 anni, già da questo momento il minore subisce le sanzioni previste dalla legge penale.

Un genitore non risponderà mai dei reati commessi dal figlio, almeno sotto il profilo sanzionatorio. E ciò vale sia che il figlio sia minorenne, sia che abbia meno di 14 anni, sia che ne abbia di più. Nessuna pena sconteranno, quindi, il padre e la madre per l’atto di bullismo commesso dal ragazzo a scuola, per l’investimento del pedone avvenuto mentre guidava il motorino, per il furto al supermercato, ecc.

Diverso discorso vale invece per le conseguenze risarcitorie ossia per quelle che, anche se conseguenti da un reato, riflettono gli aspetti civilistici della vicenda. Infatti i genitori sono tenuti a risarcire i danni (civili) per il reato commesso dal figlio finché questi è minorenne. Ad esempio, se un ragazzo di 16 anni picchia un compagno a scuola e ne provoca gravi ferite, la sanzione penale ricade sul colpevole mentre a risarcire la vittima saranno i genitori del colpevole.

Solo dopo i 18 anni, i genitori non avranno alcuna conseguenza per i danni dei reati commessi dal figlio.

I GENITORI RISPONDONO DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI FIGLI?

A differenza del penale, nell’ambito del diritto civile alcune norme estendono la responsabilità per i danni anche a soggetti che non hanno alcun legame con il fatto, che cioè non l’hanno né voluto né causato per colpa.

La semplice relazione con il responsabile del comportamento implica l’estensione di responsabilità. Così, ad esempio, i tutori, gli insegnanti e i genitori rispondono dei danni commessi dai minori nel momento in cui questi erano soggetti al loro controllo; il titolare di un’azienda rimborsa le vittime dell’inquinamento provocato dagli scarichi, dai fumi o dai rumori; la banca deve restituire al correntista i soldi trafugati dai criminali informatici che hanno clonato la carta di credito; il comune deve versare un indennizzo alle vittime di buche, fosse, tombini e gradini pericolanti; il proprietario di un cane risarcisce per i danni causati dall’animale scappato dal recinto mentre, se lo stesso cane è portato al guinzaglio da un altro familiare e, in quel frangente, aggredisce un passante, è chi lo custodisce in quel momento che ci va di mezzo.

Di conseguenza, i genitori sono responsabili di tutti i danni causati dal figlio minorenne perché ancora incapace di intendere e volere. Essi si liberano dalla responsabilità solo se dimostrano di non aver potuto impedire il fatto. Si tratta però di un onere particolarmente difficile da adempiere visto che, su di essi, grava l’obbligo di impartire al figlio una corretta educazione e, quindi, di inculcargli le regole del vivere civile.

I GENITORI SONO RESPONSABILI DEI DEBITI DEI FIGLI MINORI?

I debiti sono le conseguenze di un impegno di natura civile. Per cui la regola è che, in teoria, nel caso di figlio minorenne, i genitori sono tenuti a pagare al posto di questi.

Tuttavia, il contratto stipulato da un minore è annullabile dai genitori in quanto concluso da un soggetto incapace. L’annullamento del contratto deve avvenire entro massimo 5 anni. Per cui se il figlio compra un motorino o un cappotto e paga un anticipo ma non versa il residuo, il negoziante può sì rivalersi contro i genitori ma, se non sono passati ancora cinque anni, questi possono chiedere al giudice di annullare il contratto: dovranno, a tal fine, restituire il bene acquistato e chiedere il rimborso dei soldi già versati.

Differente è il discorso per i debiti derivanti da fatti illeciti, siano essi reati (ad esempio un investimento col motorino) o meno (ad esempio una pallonata contro un vetro). In questo secondo caso non c’è alcun contratto da annullare e i genitori sono tenuti a pagare il debito per conto del figlio.

I GENITORI RISPONDONO DEI DEBITI DI GIOCO DEI FIGLI MINORENNI?

I debiti di gioco, da chiunque contratti (maggiorenne o meno) non possono essere mai rivendicati con i meccanismi legali. Cioè il creditore non ha armi giudiziali per il recupero dei propri soldi, perché si tratta di «obbligazioni naturali» che o si adempiono spontaneamente o non c’è possibilità per chiederli tramite il tribunale.

I GENITORI RISPONDONO DEI DEBITI DEI FIGLI MAGGIORENNI?

No, i debiti dei figli maggiorenni non ricadono mai sui genitori. Padre e madre non saranno quindi responsabili del fallimento dell’attività del figlio, del suo mancato pagamento delle utenze, dei creditori rimasti insoddisfatti, ecc.

I GENITORI RISPONDONO DEI DEBITI DEI FIGLI MAGGIORENNI CONVIVENTI?

Facciamo l’ipotesi che il figlio maggiorenne conviva ancora con i genitori e dunque abbia residenza presso la stessa casa: se i creditori propongono un pignoramento mobiliare, l’ufficiale giudiziario si recherà presso la comune abitazione. In tal caso, secondo costante giurisprudenza, si presume che i beni presenti in casa appartengono al debitore; ecco allora che anche in caso di figlio maggiorenne i genitori potrebbero trovarsi a rispondere dei debiti da questo contratti.

Ai genitori spetta dimostrare, seduta stante o con un successivo ricorso al giudice dell’esecuzione, di essere i legittimi titolari di tali oggetti.

La prova però va data con atto scritto avente “data certa” (quindi non basta un contratto di comodato che facilmente potrebbe essere retrodatato, ad eccezione quindi del contratto di comodato registrato). Non è possibile quindi valersi di testimoni. Con la conseguenza che a tal fine sarà necessario produrre un documento che attesti inequivocabilmente la proprietà del bene, un documento che raramente è presente per i beni mobili presenti all’interno di un’abitazione. Quindi, un televisore, un divano, un tappeto, un quadro: sono tutti beni che possono essere pignorati dall’ufficiale se i genitori non riescono a dimostrare di averli pagati con i propri soldi

COME ESCLUDERE DALLA COMUNIONE DEI BENI LA CASA COMPRATA COI SOLDI DI UNO SOLO DEI CONIUGI

Una recente pronuncia della Cassazione (sez. II Civile, 12.03.19, n. 7207) chiarisce quali sono i requisiti per escludere dalla comunione dei beni la casa acquistata con denaro di uno solo dei coniugi.

In linea generale i beni acquistati durante il matrimonio da ciascuno dei coniugi ricadono immediatamente in comunione. Se i coniugi acquistano insieme, acquisiscono la titolarità congiuntamente e in parità di quote del bene che confluisce nella comunione legale.

Anche gli acquisti fatti da un solo coniuge separatamente confluiscono nella comunione.

Sottrarre un bene alla comunione non è lecito, richiede diversi requisiti, come chiarito bene dalla Cassazione nella pronuncia di qualche giorno fa.

I vantaggi di attribuire la titolarità di un .bene a un solo coniuge, nonostante la comunione legale, lo si vede in caso di:

  1. separazione della coppia: l’immobile non viene diviso ma resta nella proprietà chi lo ha acquistato;
  2. fallimento del coniuge imprenditore: il bene escluso dalla comunione e rimasto nella proprietà dell’altro coniuge non potrà mai essere acquisito dal tribunale e venduto all’asta; 
  3. debiti e di pignoramenti da parte dei creditori i quali possono aggredire solo i beni del debitore e, al 50%, quelli della comunione ma non quelli personali

L’art. 179 del codice civile stabilisce che non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge:

a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento;

b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;

c) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;

d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione;

e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del dannononché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;

f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purchè ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto.

L’acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell’articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge.

Proprio qui si innesta la recente pronuncia della Cassazione.

La Cassazione sottolinea che nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei due coniugi in regime di comunione legale, oltre alla partecipazione al rogito notarile dell’altro coniuge non acquirente si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l’esclusione del bene dalla comunione; né basta il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene. È necessario che ricorra una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dal codice civile.

I coniugi non possono, quindi, decidere (anche se sono d’accordo) di escludere un determinato acquisto dalla comunione se non si è in presenza di una delle condizioni di esclusione che abbiamo elencato sopra.

Ed allora – conclude la Corte – non basta dire che la casa è acquistata con il denaro personale di uno dei coniugi, ma bisogna anche poterlo dimostrare. Se manca tale prova, l’immobile rientra nella comunione dei beni. Quindi potrà essere acquisito da una eventuale procedura fallimentare, potrà essere pignorato (al 50%) dai creditori dell’altro coniuge non acquirente o andrà diviso in caso di separazione e divorzio tra marito e moglie.

SISTEMA EVAN: LE AMBULANZE POTRANNO SPEGNERE AUTORADIO E SMARTPHONE NELLE AUTO VICINE

Grazie a questo sistema brevettato da un gruppo di studenti di ingegneria del KTH (Royal Institute of Technology) di Stoccolma  non sarà più possibile non udire la sirena dei mezzi di soccorso a causa della musica ascoltata a volume alto dai conducenti o delle telefonate in corso.

Tutte le ambulanze di Stoccolma hanno iniziato a sperimentare il dispositivo in grado di salvare vite permettendo soccorsi più rapidi e sicuri.

L’incremento degli incidenti che coinvolgono mezzi di soccorso e automobili private ha spinto questo gruppo di studenti di ingegneria a realizzare questo dispositivo. Il tempo necessario alla reazione, di solito, è di 10-15 secondi, mentre sempre più spesso capita che gli automobilisti si rendano conto della presenza dei mezzi di emergenza soltanto un paio di secondi prima di vederli e ne vengano colti di sorpresa, proprio per colpa dell’isolamento acustico.

Denominato “Sistema EVAN” , questo dispositivo è in grado di comunicare con ogni apparecchio dotato di Radio Data System nelle vicinanze, disattivando i dispositivi elettronici in grado di riprodurre musica. Oltre al messaggio testuale sarà riprodotto un messaggio vocale per avvisare gli automobilisti dell’imminente arrivo dell’ambulanza, informandole di liberare la strada.

Il sistema EVAM, prevede una trasmissione radio da parte del mezzo di emergenza sulle frequenze FM vicine (a patto che gli apparecchi siano dotate di Radio Data System) ed una trasmissione tramite Bluetooth. È prevista anche la comparsa di un messaggio di testo sul display della radio.

Il segnale arriva, ad autoradio accesa, interrompendo cd, radio o musica da bluetooth con una voce che annuncia il sopraggiungere dell’ambulanza, prevedendo in anticipo quanto tempo prima l’automobilista deve ascoltare l’avviso a seconda del traffico, calcolando perfettamente i tempi a seconda che ci si trovi nel traffico cittadino, in autostrada o su strade a scorrimento veloce.

La fase sperimentale durerà 3 mesi e riguarderà solamente le ambulanze di Stoccolma. Una volta analizzati i dati verrà deciso se installare il sistema EVAN su ogni ambulanza svedese.

FATTURA ELETTRONICA E PAGAMENTI IN CONTANTI

La fattura elettronica ha un formato ben preciso che include diversi campi per cui bisogna specificare delle informazioni o codici. Le modalità di pagamento ammesse per la fattura elettronica con i relativi codici sono le seguenti:

  • contanti (MP01)
  • assegno (MP02)
  • assegno circolare (MP03)
  • contanti presso Tesoreria (MP04)
  • bonifico (MP05)
  • vaglia cambiario (MP06)
  • bollettino bancario (MP07)
  • carta di credito (MP08)
  • RID (MP09)
  • RID utenze (MP10)
  • RID veloce (MP11)
  • Riba (MP12)
  • MAV (MP13)
  • quietanza erario stato (MP14)
  • giroconto su conti di contabilità speciale (MP15)
  • domiciliazione bancaria (MP16)
  • domiciliazione postale (MP17)

La legge che istituisce, dal 1° gennaio 2019, l’obbligo di emettere la fatture elettronica si occupa solo della sua emissione ma non del ricevimento.

La fattura elettronica può essere anticipata informalmente al contribuente anche per via cartacea o con un’email. Infatti molti software gestionali prevedono la possibilità di inviare anche per email una sorta di fattura di cortesia.

Il contribuente, così, non ha l’obbligo di collegarsi al sistema Spid per verificare la presenza di fatture elettroniche da pagare. Tuttavia si tratta comunque di copie di cortesia che non hanno alcun valore legale o tributario.

In merito al pagamento della fattura elettronica non è cambiato nulla.

Si può pagare una fattura elettronica in contanti solo a condizione che l’importo non superi 2.999,99 euro. Da 3.000 euro in poi è necessario corrispondere la somma solo con strumenti tracciabili ossia con bonifico bancario, carte di debito (bancomat) o di credito, assegni non trasferibili.

Nessuna soglia è prevista per trasferimenti tracciati, eseguiti tramite banche, Poste italiane ed altri istituti a cui la legge riconosce capacità di memorizzare le transazioni, al fine di favorire l’intercettazione degli illeciti finanziari.

Medesimo discorso vale per i pagamenti rateali, anche se il costo complessivo del bene acquistato o della prestazione ricevuta – e quindi la relativa fattura elettronica – risulta superiore a 3.000 euro. Così, ad esempio, se il dentista emette una fattura elettronica di 4.000 euro per un trattamento in più sedute, in accordo col professionista si potrà versare l’importo in singole rate in contanti, purché ciascuna non superiore a 2.999,99 euro.

Per quanto riguarda i professionisti, sono ammessi più pagamenti in contanti delle fatture elettroniche. Stando infatti al Dipartimento del Mef, non c’è violazione nell’ipotesi di più pagamenti mensili per un’unica prestazione della durata, per esempio, di un anno. L’esempio pratico è degli odontoiatri, che possono svolgere un unico lavoro per un ammontare complessivo di oltre 3.000 euro. In questo caso il professionista potrà ottenere mensilmente il pagamento di una rata senza dover fare ricorso a diversi sistemi di pagamento tracciabili.

Stesso discorso per i contratti con una ditta di ristrutturazioni della casa che emette un’unica fattura alla fine dei lavori, ma di volta in volta viene pagata a SAL (stati di avanzamento lavori): se la singola rata è inferiore a 3.000 euro può essere pagata in contanti; se invece è superiore va versata con strumenti tracciabili.

Allo stesso modo, risulta sempre legittimo pagare acquisti di beni o servizi in parte in contanti ed in parte in assegno purché, in tal caso, il contante sia inferiore alla soglia di 3.000 euro.

Ed ancora i canoni di locazione di un negozio o un’unità abitativa, anche se fatturati dalla società proprietaria con la fattura elettronica, possono essere pagati in contanti fino a 2.999,99 euro. Da 3.000 euro in su con bancomat, carte di credito, assegni, bonifici ecc.

Rimane invece fermo il divieto per il trasferimento in denaro effettuato con più pagamenti inferiori alla citata soglia che appaiono artificiosamente frazionati al solo fine di eludere la legge (si pensi alla fattura di una vendita corrisposta in più pagamenti in contanti).

AGEVOLAZIONI FISCALI PRIMA CASA

AGEVOLAZIONI FISCALI PRIMA CASA

BONUS PRIMA CASA

E’ una agevolazione consente di pagare le imposte sul rogito in misura notevolmente ridotta in presenza di determinate condizioni:

  • non bisogna essere proprietari (neanche per una semplice quota o in comunione dei beni) di altri immobili adibiti ad abitazione nello stesso Comune ove si trova l’immobile da comprare. In caso contrario, l’immobile precedente deve essere venduto o donato prima della firma dell’atto notarile relativo al nuovo acquisto (quindi è possibile farlo dopo la stipula del compromesso);
  • non bisogna essere proprietari (neanche per una semplice quota o in comunione dei beni) di altri immobili adibiti ad abitazione, ovunque essi situati in Italia, acquistati in precedenza con il bonus prima casa. In caso contrario, l’immobile precedente deve essere venduto o donato entro i 12 mesi successivi dall’atto notarile relativo al nuovo acquisto;
  • occorre spostare la residenza nel Comune (e non necessariamente all’indirizzo specifico) ove si trova il nuovo immobile da acquistare. Si ha tempo fino a 18 mesi dal rogito per farlo. Non è consentito alcun ritardo salvo vi sia un giustificato motivo non dipendente da colpa del proprietario (ad esempio è stato ritenuto non rilevante il ritardo nei lavori di ristrutturazione dell’appartamento). In alternativa alla residenza, è possibile usufruire dell’agevolazione prima casa se l’immobile acquistato si trova nel Comune in cui l’acquirente svolge la propria attività lavorativa o di studio;
  • il nuovo immobile non deve essere di lusso. In pratica esso deve essere accatastato in una delle seguenti categorie A/2, A/3, A/4, A/5, A/6, A/7, A/11. Le agevolazioni “prima casa” non sono ammesse, invece, per l’acquisto di un’abitazione appartenente alle categorie catastali A/1 (abitazioni di tipo signorile), A/8 (abitazioni in ville) e A/9 (castelli e palazzi di eminenti pregi artistici e storici).

Per ottenere il bonus prima casa il requisito della residenza è imprescindibile. Tuttavia è sufficiente che l’acquirente sia residente nel Comune e non anche all’indirizzo ove è ubicato l’immobile appena comprato. Quindi l’acquirente potrebbe usufruire del bonus prima casa anche se decidesse di dare in affitto la casa nuova e di andare a vivere in un’altra abitazione, purché situata nello stesso Comune.

La legge si limita a richiedere il presupposto della residenza nel Comune ove si acquista il nuovo immobile al momento del rogito (ossia della firma dell’atto notarile di acquisto) o, al massimo, entro i 18 mesi successivi.

La legge non precisa quanto tempo minimo bisogna mantenere la residenza in tale Comune, né se si può cambiare residenza senza perdere le agevolazioni fiscali sulla prima casa. Sul punto non ci sono neppure precisazioni dell’Agenzia delle Entrate, né norme di interpretazione autentica, né sentenze che dicano come comportarsi.

Nell’assoluto silenzio normativo e giurisprudenziale si può ritenere che il mantenimento della residenza nel nuovo immobile non sia condizione necessaria per mantenere il bonus prima casa. Dunque, il contribuente, decorsi almeno i 18 mesi dal nuovo acquisto, potrebbe in un successivo momento spostare la propria residenza altrove. Solo per fini precauzionali sarebbe opportuno attendere quanto meno il triennio di decadenza per l’accertamento fiscale e, quindi, cambiare residenza dal quarto anno in poi dopo l’acquisto.

Detrazioni interessi passivi sul mutuo per l’acquisto della prima casa

La seconda agevolazione fiscale prevista sull’abitazione è la detrazione del 19% sugli interessi dovuti alla banca per le rate del mutuo

Ogni rata del mutuo è composta, in parte, da una quota del capitale ottenuto in prestito – che viene restituita così gradatamente – e, in altra parte, dagli interessi prestabiliti nel contratto. Nel caso in cui il mutuo sia rivolto all’acquisto della prima casa, il 19% della somma che l’acquirente versa a titoli di interessi, può essere detratto dalle tasse. La detrazione non opera più superati 4.000 euro di interessi. Quindi il bonus massimo ottenibile in sede di dichiarazione dei redditi dal sostenimento di questi oneri è pari a 760 euro (19% di 4.000 euro).

Per ottenere questa seconda agevolazione fiscale, sono necessari tutti i presupposti che si sono elencati per il cd. Bonus prima casa e in particolare, spostare la residenza nel Comune ove si trova la casa da acquistare entro 18 mesi dal rogito o, in alternativa, avere ivi situata la sede del proprio lavoro.

Esenzione e Tasi sull’abitazione principale

Un’altra agevolazione fiscale collegata alla proprietà di un immobile è l’esenzione da Imu e Tasi. In questo caso però la legge non parla di “prima casa” ma di abitazione principale. Il concetto è completamente diverso. 

Per non pagare l’Imu e la Tasi sono necessari due differenti presupposti: 

  1. la residenza all’interno dell’immobile acquistato (quindi, in tal caso, non basta fissare la residenza all’interno dello stesso Comune ma è necessario che essa coincida proprio con l’indirizzo del nuovo immobile);
  2. la contestuale dimora abituale dell’acquirente e della sua famiglia. In pratica tutto il nucleo familiare deve vivere quotidianamente – o comunque per gran parte dell’anno – all’interno dell’immobile in questione.

La residenza è il dato formale: è quanto risulta nei registri dell’anagrafe. La dimora è invece il dato di fatto: è il luogo ove una persona vive prevalentemente. In ogni caso il nostro ordinamento non consente di stabilire residenze di comodo: la residenza dichiarata all’ufficio anagrafe deve essere dislocata necessariamente all’interno della propria dimora abituale, ossia dove si vive, si dorme e si cena per gran parte dell’anno. Come chiarito più volte dalla giurisprudenza (CTR Lombardia sent. n. 531/2019), la legge (Art. 13, comma 2 del dl 201/11) accorda le agevolazioni fiscali sulle imposte locali Imu e Tasi (non anche per la Tari) ai proprietari degli immobili in cui gli stessi proprietari oltre che essere residenti, siano anche dimoranti. Difatti, con il passaggio dall’Ici all’Imu i requisiti sono variati: per le agevolazioni per l’Imu e la Tasi, infatti, è richiesto il duplice requisito della dimora abituale e della residenza. Questo significa che, ai fini di questa agevolazione, può considerarsi solo abitazione principale quella in cui il possessore risieda anagraficamente e dimori abitualmente insieme ai suoi familiari. Quindi, chi ha la proprietà di una casa e successivamente stabilisce la residenza in un altro immobile senza abitarlo non può ottenere, per nessuno dei due immobili, le agevolazioni previste per l’abitazione principale. 

DIVIETO DI PIGNORAMENTO DELLA PRIMA CASA

L’ultima agevolazione collegata agli immobili di proprietà è il cosiddetto “divieto di pignoramento della prima casa”. In verità, nonostante comunemente si parli di “prima casa”, il beneficio è invece relativo all’abitazione principale. In pratica, chi ha debiti con l’Agente della Riscossione (che, per le imposte erariali, è l’Agenzia Entrate Riscossione) non subisce il pignoramento dell’abitazione a condizione che:

1)         sia proprietario di un solo immobile: la proprietà, anche solo per quote o in comunione, di un altro immobile, rende entrambi pignorabili;

  • tale immobile sia adibito a civile abitazione;
    • in tale immobile sia fissata la residenza del contribuente;
    • l’immobile non deve essere di lusso ossia accatastato A/8 o A/9.

In presenza di tali condizioni solo l’Esattore non può pignorare la casa. Lo possono però fare i creditori privati come la banca o i fornitori.

Se manca anche uno solo di tali requisiti – si pensi al contribuente che, pur titolare di una sola casa, ha preferito darla in affitto – l’immobile è pignorabile da parte dell’Agenzia Entrate Riscossione. Tuttavia lo sarà solo se il debito per cartelle scadute e non pagate supera 120mila euro e il valore complessivo di tutti gli immobili intestati al contribuente è superiore a 120mila euro.

PIGNORAMENTI IMMOBILIARI 2019: nuove regole decreto “semplificazioni”

Il Governo ha cambiato di nuovo le regole del processo civile e, in particolare, quelle sui pignoramenti immobiliari, al fine di tutelare i debitori consentendo loro di rimanere nelle case messe all’asta dai tribunali finché il bene non verrà aggiudicato al miglior offerente.

Provvedimento già molto criticato perché complica ulteriormente il recupero dei crediti, con diverse prevedibili conseguenze:

  • la presenza del debitore all’interno dell’immobile sottoposto ad esecuzione forzata, per tutta la durata della procedura, potrebbe disincentivare la partecipazione alle vendite giudiziali.
  • sicuramente anche una maggiore contrazione e onerosità dei mutui;
  • ed anche la ulteriore perdita di immagine della nostra giustizia, incapace da sempre di tutelare i diritti di chi si rivolge ad essa per la tutela dei crediti.

Nel dettaglio: fin quando la casa messa all’asta non viene aggiudicata e venduta, la proprietà resta in capo al debitore. Tuttavia questi ha poteri molto limitati sul proprio bene:

  • non può disporne (ossia non può venderlo, né donarlo),
  • non può modificarne la destinazione (non può ad esempio trasformarlo da civile abitazione a negozio),
  • non può distruggerlo o deteriorarlo,
  • non può darlo in affitto (in tal caso il canone andrà a finire alla procedura esecutiva), ecc.

Tuttavia, il pignoramento non comporta l’automatico spossessamento del bene e, se si tratta di un’abitazione privata, il debitore può continuare a rimanervi all’interno fin quando il bene stesso non viene aggiudicato al miglior offerente.

Il giudice nomina comunque un custode incaricato di controllare l’immobile (a Reggio Emilia generalmente l’Istituto Vendite Giudiziarie) e il comportamento del debitore, affinché quest’ultimo non impedisca la vendita del bene.

La precedente versione dell ‘art. 560 c.p.c. conferiva al giudice dell’esecuzione forzata ampi poteri di ordinare lo sfratto del debitore tutte le volte in cui lo avesse ritenuto necessario ai fini di una più sollecita vendita. La norma disponeva infatti che «il giudice dell’esecuzione dispone, con provvedimento non impugnabile, la liberazione dell’immobile pignorato quando non ritiene di autorizzare il debitore a continuare ad abitare lo stesso, o parte dello stesso, ovvero quando revoca la detta autorizzazione, se concessa in precedenza, ovvero quando provvede all’aggiudicazione o all’assegnazione dell’immobile».

Oggi invece questa discrezionalità viene fortemente limitata. La nuova versione della norma stabilisce il diritto del debitore (e dei suoi familiari conviventi) a continuare ad abitare nell’immobile pignorato fino al decreto di trasferimento che conclude l’espropriazione forzata.

Ciò nonostante il debitore deve comportarsi in modo corretto per tutta la durata dell’esecuzione: non può, ad esempio, compiere atti volti ad ostacolare la vendita dell’immobile; deve conservare il bene tutelandone l’integrità, con la diligenza del buon padre di famiglia; deve abitare l’immobile personalmente e non può darlo in affitto (locazione); deve consentire, d’accordo con il custode, la visita dell’immobile da parte di potenziali acquirenti, con le modalità individuate dal giudice quando ha autorizzato la vendita dell’immobile.

Se il debitore rispetta le disposizioni «il giudice non può mai disporre il rilascio dell’immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento».

In caso contrario (se ad esempio il debitore ostacola le visite di interessati all’acquisto, se non cura la manutenzione dell’immobile, se viola gli altri obblighi che la legge pone a suo carico) il giudice ordina, sentito il custode ed il debitore, la liberazione dell’immobile pignorato.

In pratica, se il debitore si comporta bene non può essere sfrattato dalla sua casa, prima della fine della procedura esecutiva.

Il giudice infine ordina lo “sfratto” del debitore dall’immobile quando questi non lo abita più ossia quando ha adibito un altro immobile a propria dimora abituale.

È dovere del custode dell’immobile pignorato vigilare sulla conservazione del bene pignorato, conservazione che il debitore e i suoi familiari devono attuare con la diligenza del buon padre di famiglia e ne mantengano e tutelino l’integrità.

Le critiche alle modifiche legislative sono ovvie. Pensiamo ad esempio a un condominio dove ci sia un comproprietario che non paga le spese condominiali da anni. L’amministratore di condominio su mandato degli altri condomini incarica un avvocato per il recupero del credito. Ma il comproprietario moroso non ha altri beni al di fuori dell’appartamento che abita nel condominio in questione. Ottenuto il decreto ingiuntivo, viene iniziata la procedura esecutiva immobiliare e secondo le nuove regole il condomino moroso è autorizzato a continuare a vivere nell’immobile pignorato, senza mai pagare nulla. Nel frattempo le aste in tribunale vanno tutte deserte, perché nessuno è interessato ad acquistare un immobile se al suo interno c’è il debitore, il quale, verosimilmente, anche dopo l’aggiudicazione dell’immobile all’asta, non se ne andrà spontaneamente. L’aggiudicatario dell’asta dovrà ricorrere all’esecuzione forzata, spendendo altri soldi, con incertezza sui tempi.

Vediamo nel dettagli le modifiche all’articolo 569 cod. proc. civ.

A seguito dell’istanza di vendita del bene, presentata dal creditore, il giudice nomina entro 15 giorni un perito per la determinazione del valore dell’immobile e fissa l’udienza di comparizione delle parti. Non oltre trenta giorni prima dell’udienza, il creditore pignorante e i creditori già intervenuti depositano un atto, sottoscritto personalmente dal creditore e previamente notificato al debitore esecutato, nel quale è indicato l’ammontare del residuo credito per cui si procede, comprensivo degli interessi maturati, del criterio di calcolo di quelli in corso di maturazione e delle spese sostenute fino all’udienza.

In difetto, agli effetti della liquidazione della somma, il credito resta definitivamente fissato nell’importo indicato nell’atto di precetto o di intervento, maggiorato dei soli interessi al tasso legale e delle spese successive.

L’atto di quantificazione dovrà essere previamente notificato al debitore.

Le nuove disposizioni si applicano alle procedure esecutive iniziate dopo la data di entrata in vigore dell’intervento di modifica.

RISPARMIARE SUI BIGLIETTI AEREI CON IL FENOMENO DELLA “CITTÀ NASCOSTA” È LEGALE?

E’ di enorme attualità la diffusione della notizia che sfruttando un algoritmo si può risparmiare sul costo dei biglietti aerei. Come funziona questo schema o procedimento sistematico di calcolo? E soprattutto è legale?

Un passeggero ha spiegato la sua esperienza al Corriere della Sera, con tanto di verifica. Questo signore ha messo in evidenza che, negli algoritmi utilizzati dalle compagnie aeree, c’è una falla che permette di risparmiare sul biglietto aereo fino al 70% e ha messo a punto un sistema che consiste nel prenotare un biglietto con scalo intermedio, che corrisponde alla vera meta del proprio viaggio, lasciando perdere il resto del tragitto.

Pertanto, se da Bologna si vuole andare a Barcellona, spendendo meno di un volo diretto, si può prenotare un volo da Bologna a Malaga trovando una soluzione che costa meno del volo diretto su Barcellona e quando arrivi nella capitale catalana, si lascia l’aeroporto senza imbarcarsi sul secondo volo.

Certo, se si vuole risparmiare sul biglietto aereo in questo modo bisogna armarsi di santa pazienza e cominciare a cercare la combinazione giusta per riuscire a risparmiare sul biglietto aereo grazie agli algoritmi delle compagnie. Così, la prima cosa da fare quando si vuole fare la prenotazione è scegliere la data di partenza, l’aeroporto da cui si vuole decollare e quello di destinazione e la classe di viaggio (ovviamente volendo risparmiare si dovrà scegliere la classe Economy). Dopodiché si parte con le ricerche, sia sui siti delle compagnie sia sui comparatori delle agenzie di viaggio in modo da avere un risultato attendibile.

L’indagine pubblicata dal Corriere, che dimostra come risparmiare sul biglietto aereo trova, ad esempio, un’interessante soluzione per viaggiare da Bari a Milano in data di oggi, 31 gennaio con Alitalia rinunciando al volo diretto per pagare circa il 37% in meno. In pratica, il biglietto da Bari a Milano di sola andata costa quel giorno 92,70 euro. Ma prenotare un biglietto da Bari a Londra Heathrow con scalo a Milano, lo stesso giorno e alla stessa ora e con la stessa compagnia (cioè l’aereo è lo stesso) costa 58,06 euro. Basta lasciare l’aeroporto di Linate quando si fa lo scalo a Milano e si risparmiano 34,64 euro.

Il risparmio sul biglietto aereo, come accennato all’inizio, può sfiorare il 70%. È il caso di chi da Torino vuole andare a Bruxelles. Se acquista un volo diretto con la compagnia di bandiera belga Brussels Airlines pagherà 287,79 euro. Se, invece, prende lo stesso aereo con destinazione Tolosa che fa scalo proprio a Bruxelles, pagherà 89,98 euro. Il risparmio è di 197,81 euro, cioè il 68,70% in meno.

Attenzione al BAGAGLIO però. Per risparmiare sul biglietto aereo ricorrendo a questo «trucchetto» non bisogna spedire la valigia ma portarla a mano. Altrimenti finirebbe nella stiva e verrebbe consegnata solo all’aeroporto di destinazione finale, non allo scalo.

Risparmiare sul biglietto aereo: è legale?

Negli Stati Uniti si conosce questo fenomeno come il «biglietto della città nascosta». In Europa, però, se n’è sentito parlare poco.

C’è da capire se tutto questo sia legale. Qualche compagnia aerea estera ha alzato la voce cercando di trascinare in tribunale chi aiuta i passeggeri a risparmiare sul biglietto aereo in questo modo. Tuttavia, nel contratto, non c’è scritto nulla che vieti di lasciare il viaggio a metà abbandonandolo all’aeroporto in cui si fa scalo e non a quello di destinazione. Se hai perso il volo aereo (volutamente o perché sei arrivato tardi in aeroporto) è un problema tuo. Lo stesso, quindi, se hai perso la coincidenza quando fai scalo in un aeroporto intermedio: è sempre un problema tuo!

Probabilmente da adesso in poi, le compagnie staranno più attente ai propri algoritmi e cercheranno due soluzioni: la prima, mettere a posto il sistema informatico che definisce le tariffe. La seconda, fare qualcosa affinché i viaggiatori non adottino questo sistema per risparmiare sul biglietto aereo.

Certo se molte persone adotteranno questo sistema, il prezzo per le destinazioni finali con scalo intermedio decollerà: più persone scendono nella «citta nascosta» e più cara sarà la seconda tratta, quella che dallo scalo porta a destinazione a causa dell’effetto offerta-domanda. L’algoritmo della compagnia aerea, infatti, capirà soltanto che l’aereo parte pieno e che c’è molta richiesta per determinati voli. Così, anche il prezzo decolla. A discapito di chi farà il volo fino alla fine, in un aereo che resterà mezzo vuoto dopo lo scalo.