Archivio degli autori Marilena Maioli

L’ordine dei medici di Bologna ha revocato la sospensione al Dr. Giuseppe di Bella

Il dottor Giuseppe Di Bella, da sempre in prima linea nella lotta ai tumori, nei giorni scorsi aveva denunciato di essere stato sospeso dall’ordine dei medici.

In una intervista al Secolo d’Italia il luminare riferisce: «Ieri l’ordine dei medici di Bologna ha revocato la sospensione e quindi tornerò a essere pienamente operativo. Ma quanta amarezza. Da circa un mese, malgrado l’invio per Pec all’ordine dei medici di Bologna della documentazione, attestante a norma di legge, d’aver contratto il Covid (superato in forma pressoché asintomatica) e terminato la quarantana di rito, con tampone negativo, sono stato sospeso dall’ordine di Bologna perché non vaccinato. Dopo il Covid è previsto per legge un differimento tra tre e sei mesi della vaccinazione. Pertanto anche volendo, non avrei potuto vaccinarmi. A distanza di un mese malgrado la Pec e ripetuti interventi del mio avvocato, non sono stato degnato di una risposta con grave disagio dei tanti pazienti in cura a quali non posso aggiornare le terapie e rinnovare le ricette».

Prosegue l’intervista.

Quindi, come si è regolato con i pazienti in cura?

«Ho dovuto disdire una quantità di appuntamenti, spesso di casi urgenti e di tanti che da tempo avevano prenotato il viaggio. Non avrei mai ipotizzato in 57 anni di professione medica che si arrivasse a tale degrado, al disprezzo totale dei diritti fondamentali dell’etica medica, della dignità del medico, di norme costituzionali, delle evidenze scientifiche. Qualche bieco complottista potrebbe insinuare che si è realizzata così la forma più semplice e in apparenza legale per affossare il MDB, come sempre in Italia nell’indifferenza generale».

Comunque adesso la sospensione è stata revocata e lei potrà dedicarsi ai suoi pazienti. È di qualche giorno fa la notizia di uno studio sui tumori cerebrali. Di che cosa si tratta?

«È uno studio clinico osservazionale retrospettivo su sette casi di neoplasie cerebrali altamente aggressive. Due Glioblastomi che hanno in letteratura un’aspettativa di vita tra i 15 e 18 mesi e cinque Astrocitomi anaplastici di III°, la cui aspettativa di vita non è molto superiore. I due casi di Glioblastoma hanno superato l’ottavo anno, la risonanza magnetica e la Pet cerebrale sono negative. I pazienti conducono una vita normale in assenza di tumore.

Come è stato conseguito questo risultato?

«Il risultato è stato conseguito spostando l’asse terapeutico da strategie citotossiche e citolitiche dei tumori cerebrali come il “Protocollo di Stupp”, alla riprogrammazione, non all’utopistica uccisione, delle cellule staminali tumorali costituenti questi tumori cerebrali, totalmente chemio radioresistenti. Il Metodo Di Bella continuamente aggiornato con molecole biologiche differenzianti e non tossiche, secondo l’insegnamento del Professor Di Bella, ha conseguito questo risultato riconducendo gradualmente alla normalità, senza tossicità le reazioni vitali deviate dal cancro».

25° anniversario di attività

In occasione del 25° anniversario di attività, desideriamo ringraziare tutti coloro i quali hanno contribuito alla buona riuscita del nostro lavoro!

Prima Sentenza in Italia. Scatta il risarcimento in caso di richiesta illegittima di green pass. Sentenza Tribunale di Firenze 3 marzo 2022 n. 155.

Le richieste del green pass da parte di aziende ed enti pubblici, se non previste dalla legge, determinano condotte illegittime e abusive con conseguente condanna al risarcimento danni.

La prima sentenza è del Tribunale di Firenze, sezione Lavoro, del 3 marzo, pubblicata il 4 marzo, Giudice Dott.ssa Davia, che condanna una società al pagamento di oltre 4.000 euro per aver richiesto illegittimamente, ad agosto 2021, ad un’addetta piscina presso il club di Firenze Rovezzano, per due volte il green pass.

La sentenza è stata pronunciata su fatti accaduti nel 2021 in base alla normativa allora vigente.

L’addetta aveva fatto presente che il green pass non era citato nelle norme in materia di lavoro, ma l’azienda, dopo aver segnalato la mancata esibizione del certificato verde il 7 e il 9 agosto, ha inviato a tutti i suoi dipendenti una comunicazione con la richiesta di green pass ed ha sospeso l’addetta alle piscine.

Infatti, il giorno 7 del mese di agosto, come ogni mattina, la donna si era recata al lavoro ma non era riuscita ad entrare nel club perché le avevano chiesto il green pass all’ingresso: solo trentasei ore dopo la società ha inviato una comunicazione con cui avvisava di esigere il certificato verde da tutti i dipendenti e i collaboratori.

Secondo l’azienda, il green pass rientrava tra le misure di sicurezza in ottemperanza alla normativa sulla “tutela delle condizioni di lavoro” (art.2087 del codice civile), ma il Tribunale ha sancito l’illegittimità della richiesta.

Peraltro, l’articolo 9 bis del decreto legge 52/2021 impone il possesso del lasciapassare verde ai frequentatori delle piscine soltanto per le attività al chiuso, mentre l’obbligo di green pass sarebbe scattato soltanto in seguito con il decreto legge 105/21.

Se non previsto espressamente da una norma, quindi, un’azienda o un ente non può interpretare l’articolo 2087 c.c. a proprio piacimento inserendo l’obbligo di green pass. La condotta, infatti, configura un illecito che determina un risarcimento danni.

Nel caso specifico, il datore di lavoro è stato condannato al pagamento di un risarcimento pari ad euro 1.912,81 più rivalutazione, per il periodo intercorrente tra la sospensione e l’obbligo normativo con decorrenza 15 ottobre, euro 1.850 per le competenze legali oltre a iva, cassa previdenza avvocati e rimborsi e ai 49 euro del contributo unificato.

Si tratta di un orientamento nuovo che apre la strada a possibili numerosissime azioni giudiziarie di risarcimento danni, considerate le tante richieste illegittime di green pass nei mesi scorsi, da valutare alla luce dei vari decreti succedutisi nel tempo.

Le compagnie assicuratrici non vogliono pagare i danni post-vaccinali e il giudice dà loro ragione paragonando la morte dovuta alla vaccinazione al suicidio

Riportiamo un articolo di Edward Hendrie dell’8 febbraio 2022, che ha raccolto la testimonianza dell’avv. Carlo Alberto Brusa, un avvocato italo-francese alla Corte di Parigi, che ha assistito la famiglia di una persona che è morta a causa del vaccino Covid-19.

La compagnia di assicurazioni ha giustificato il rifiuto a pagare in base alla polizza assicurativa perché i vaccini covid-19 sono considerati un esperimento medico. La compagnia ha spiegato che gli effetti collaterali del vaccino Covid-19 sono stati pubblicati e che la parte assicurata avrebbe dovuto sapere che prendere parte a un pericoloso esperimento medico avrebbe potuto portare alla sua morte. La compagnia di assicurazioni ha paragonato la sua morte al suicidio. Le polizze vita assicurative hanno una clausola standard che esclude il suicidio come morte coperta dalla polizza stessa.

Riportiamo qui di seguito l’articolo originale.

Life Insurance Company Refuses to Pay Out Life Insurance Policy Because Death Was From Experimental COVID-19 Vaccine

February 8, 2022 by Edward Hendrie

According to the lawyer for the family, Carlo Alberto Brusa, a life insurance company has refused to pay out on a life insurance policy for a person who died from a COVID-19 vaccine injection. The insurance company justified the refusal to pay on the policy because COVID-19 vaccines are considered an experimental medication or treatment. The insurance company explained that the side effects of the COVID-19 vaccine were published, and the insured party should have known that taking part in a dangerous medical experiment could have resulted in his death. The insurance company likened his death to suicide. Life insurance policies have a standard provision that excludes suicide as a covered death.

The family sued and the French court ruled:

The side effects of the experimental vaccine are being made public and the deceased could not claim ignorance when he voluntarily took the vaccine. There is no law or mandate in France forcing him to be vaccinated. Therefore, his death is essentially suicide.

The Court recognizes the classification of the insurer, which legally regards participation in the phase three experiment, which has not been proven to be harmless, as a voluntary assumption of a fatal risk not covered by the contract, given the side effects announced, including death covered and legally recognized as suicide. The family has appealed. However, the insurer’s defense is recognized as valid and contractually justifiable since this publicly known risk of death is legally considered suicide since the customer has been notified and has agreed to voluntarily risk death without being obliged or coerced to do so being.

This seems to reflect a growing trend among insurance companies in Europe. For example, German health insurance company Techniker Krankenkasse states that “vaccination damage and other consequences of the Covid vaccination are NOT insured.”

It is unclear if these rulings by European insurance companies will be precedent for U.S. life insurance companies to follow. But the possibility is real.

The widespread rollout of the experimental vaccines has caused a sharp increase in Covid-19 cases and deaths across the world, according to a recently published preprint study that looked at data from the 145 of the most vaccinated countries in the world.

The 99-page study titled “Worldwide Bayesian Causal Impact Analysis of Vaccine Administration on Deaths and Cases Associated with COVID-19: A BigData Analysis of 145 Countries” found that in the US specifically, the jab has caused a whopping 38% more Covid cases per million – and an even more astonishing 31% increase in deaths per million.

Riener Fuellmch mentioned in an interview that the CEO of a large insurance company revealed that there has been an unprecedented 40% increase in mortality in 2021. I checked out his statement and was able to verify it. I found that on or before January 11, 2021, Scott Davidson, CEO of OneAmerica Insurance Company revealed that there has been a 40% increase in mortality in 2021. Scott Davidson stated: “We are seeing, right now, the highest death rates we have seen in the history of this business … death rates are up 40% over what they were pre-pandemic.”

That figure was confirmed by The Insurance Regulatory and Development Authority of India, which reported a 41% rise in death claims in 2021.

OneAmerica is a massive insurance company, with approximately $97.7 billion under administration. Insurance companies have a pecuniary interest in accurately assessing mortality. They keep a close watch on total mortality because it affects directly the money that they must pay out in life insurance claims and it directly affects the premiums they charge. They are experts in total mortality.

That a 40% increase in deaths in the U.S from represents 900,000 increased deaths in 2021 over 2020 attributed to the COVID-19 vaccines.

Life insurance companies are looking at unexepected payouts in the hundreds of millions and even billions of dollars from COVID-19 vaccine deaths. Absorbing that kind of monetary payout might threaten the continued financial viability of some of the smaller insurance companies. They may have to deny death claims caused by COVID-19 vaccines as a matter of economic survival.

The article below was posted on January 14, 2022, on Free West Media.

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Although vaccination is recognized as the cause of death by doctors and the insurance company, it has refused to pay out. The reason is because the side effects of the Corona jabs are known and published. They argue that the deceased took part in an experiment at his own risk. Covid-19 in itself is not classed as a “critical illness”.

According to the company, an experimental vaccination resulting in death is like suicide

The insurance company justified the refusal of payment to the family by stating that the use of experimental medication or treatments, including Corona injections, is expressly excluded from the insurance contract. The family’s subsequent lawsuit against the insurance company has been unsuccessful.

The court allegedly justified its ruling as follows: “The side effects of the experimental vaccine are published and the deceased could not claim to have known nothing about it when he voluntarily took the vaccine. There is no law or mandate in France that compelled him to be vaccinated. Hence his death is essentially suicide.” Since suicide is not covered by the policy from the outset, the insurance refuses to budge.

Scandalous verdict: taking a fatal risk is legally suicide

“The court recognizes the classification of the insurer who, in view of the announced side effects, including death, legally regards participation in the phase three experiment, whose proven harmlessness is not given, as voluntarily taking a fatal risk that is not covered by the contract and legally recognized as suicide. The family has appealed. However, the insurer’s defense is recognized as well-founded and contractually justified, as this publicly known fatal risk is legally considered suicide, since the customer has been notified and has agreed to voluntarily take the risk of death without being obliged or compelled to do so.”

No surprise: Mainstream media is silent

This case has not yet been reported in France ‘s mainstream media. The case was published by the family’s lawyer, Carlo Alberto Brusa, on social media. Unfortunately, no sources or court records are given, which is why the authenticity of the report cannot currently be verified although there have been other warnings regarding the risk associated with the jabs recognized by insurers. In the US, the American Council of Life Insurers (ACLI) has denied reports of non-payment.

Censorship

In recent months, many French anti-vaccine groups of the social network Facebook have been victims of sudden, unjustified closures, especially support groups for Brusa and Professor Didier Raoult. The latter has often been criticized for his positions on vaccines, hydroxychloroquine and his criticism of the mismanagement of the epidemic by the Macron government.

At the end of last year, the main support group for Didier Raoult was deactivated before it was reactivated, thanks to a mobilization on social networks and a massive relay on alternative media. On November 27, a teacher support group for Brusa was suspended. With no less than 310 000 members to its credit, the group created in March 2020 was closed for having shared the complaint by Brusa concerning the wearing of masks for children. The Parisian lawyer and his association Réaction-19 was accused of spreading a “conspiracy”.

Global difficulties for insurers due to vaccines

Actuaries have been warning that rising claims will be eroding the capital which insurers set aside to avoid insolvency. Notably, older people do not take out life insurance, which means that the claims have been from younger clients. Insurers say that they expect a rise in excess deaths.

According to Alex Berenson, the risk of injury or death from the jab is exceptionally high judging from Canadian data.

The refusal to pay for a vaccine-related death may not be surprising since globally the life insurance industry has been hit with reported claims of $5,5 billion in the first nine months of 2021 versus $3,5 billion for the whole of 2020, according to insurance broker Howden.

Dutch insurer Aegon, with two-thirds of its business in the US, said its American claims in the third quarter were $111 million, up from $31 million a year earlier.

Vaccine deaths may force insurers to raise premiums and some have indicated that they intend to punish the unvaccinated for their financial woes.

Professore Ordinario di Procedura Civile: “Con così tante reazioni avverse impossibile imporre l’obbligo”

Il Professor GIULIANO SCARSELLI, professore ordinario di Procedura Civile a Siena, in occasione di una intervista a “Il Fatto Quotidiano” del 1 marzo 2022, ha evidenziato l’illogicità dell’obbligo vaccinale in presenza di così tante segnalazioni di reazioni avverse.

“Non è corretto chiamare strumenti di persuasione quelli che invece sono strumenti di coercizione”, afferma il Professore. “Se a taluno dico che senza il vaccino non può lavorare, quella persona non l’ho persuasa a vaccinarsi, bensì l’ho costretta. E l’obbligo vaccinale è costituzionalmente legittimo non quando, come è stato affermato, i rischi sono inferiori ai benefici, ma quando la vaccinazione non comporta alcun rischio che non sia banale, ovvero solo quando “esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi sia assoggettato” (v. Corte cost. 22 giugno 1990 n. 307; Corte cost. 23 giugno 1994 n. 258; Corte cost. 18 gennaio 2018 n. 5). Questa condizione non mi sembra vi sia a fronte di questi vaccini, visto che hanno una autorizzazione condizionata e a fronte di decine di migliaia di eventi segnalati e centinaia di decessi non esiste un sistema di farmacovigilanza attiva. E il cosiddetto scudo penale di cui all’art. 3 del decreto legge 44/2021 ha previsto che nessuno, e non solo i medici, possa incorrere in responsabilità penale per morte o lesioni dei vaccinati quando l’uso dei vaccini sia conforme ai protocolli. Non si fanno indagini per fatti che non costituiscono reato”.

Già a commento della sentenza n.7045 del Consiglio di Stato del 20 ottobre 2021, aveva espresso molti dubbi.

Aveva scritto in una nota: “Questa la sentenza, che, con approfondite motivazioni, ribadisce opinioni da molti già esternate, ovvero che, in forza dell’art. 32 Cost., direttamente o indirettamente, il legislatore può imporre a tutti la vaccinazione SARS-CoV-2, e ciò nel modo più libero possibile, e quindi, direi, anche con lo strumento del green pass, il quale, seppur non citato espressamente, mi sembra implicitamente richiamato dal seguente passo, per il quale l’emergenza sanitaria in corso: “lascia (altresì) spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace delle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo, al fine di raggiungere, mediante la vaccinazione di massa, l’obiettivo della c.d. immunità di gregge”.

Sommessamente, io dubito che possano, con questa sicurezza, affermarsi queste cose; cosicché, seppur con tutto il rispetto possibile, e seppur con tutte le riserve che una analisi giuridica sempre ha, mi permetto di segnalare le seguenti perplessità, al fine di ogni più ampia riflessione.

E cerco di farlo nel modo più semplice possibile, poiché credo che tematiche di questa importanza debbano poter essere comprese da tutti, e non solo dai giuristi.  

Mi sembra, intanto, che l’esempio dei 30 farmaci oncologici autorizzati in forma condizionata non sia pertinente, perché nessuno di quei famaci costituiva per il malato un trattamento sanitario obbligatorio.

Tutto al contrario, secondo il principio del consenso informato, in quei casi si faceva presente al paziente l’opportunità di utilizzare quel farmaco, avvertendo che il farmaco era però autorizzato solo in via condizionata; dopo di che era il paziente, in libertà, che sceglieva se farne uso o meno, ai sensi della legge 22 dicembre 2017 n. 219, e nel rispetto degli orientamenti in punto di libertà di cura di cui a Corte Cost. 16 novembre 2018 n. 207 e Corte Cost. 22 novembre 2019 n. 242 (e, prima ancora, a Corte Cost.23 dicembre 2008 n. 438 e Corte Cost. 30 luglio 2009 n. 253).

È evidente la differenza che corre tra quelle ipotesi e il vaccino SARS-CoV-2: una cosa, infatti, è la sufficienza dell’autorizzazione condizionata a commercializzare e far uso di un farmaco; altra cosa la sufficienza a poterlo imporre come trattamento sanitario obbligatorio.  

Ed infatti, per imporre un farmaco, non basta accertarne l’efficacia, ma serve soprattutto assicurarne la sicurezza.

Sotto questo profilo la sentenza fa riferimento, come abbiamo visto, al rapporto AIFA del 12 ottobre 2021, e il rapporto, ha detto il Consiglio di Stato, fa emergere che i rischi per chi si sottoponga alla vaccinazione sono assolutamente minimi. 

In realtà, però, su questa conclusione, possono sollevarsi a mio parere dei dubbi, anche perché il Consiglio di Stato, nel richiamare i dati AIFA, non ha tenuto conto di alcune circostanze.

a) La prima è che il rapporto AIFA ha fatto riferimento anche a 608 morti in Italia a seguito di vaccinazione.

Di questo, la sentenza niente dice.

È vero che su alcune di queste morti potrebbe mancare il nesso di causalità con il vaccino, ma è parimenti vero che potrebbero sussistere altri casi di morte che non siano stati rilevati.

b) La seconda omissione concerne gli art. 3 e 3 bis del dl 1 aprile 2021 n. 44 relativi allo scudo c.d. penale, disposizioni normative mai menzionate nella sentenza, e con le quali si è previsto che nessuno, e non solo i medici, passano incorrere in responsabilità penale per morte o lesioni dei vaccinati quando l’uso dei vaccini sia stata conforme ai protocolli istituiti.

Da questa norma, fortemente voluta dai sanitari, si comprende, direi, tutto al contrario, che evidentemente dei rischi nella vaccinazione SARS-CoV-2 vi sono, se i medici, ovvero gli addetti ai lavori, hanno preteso, e per la prima volta, la totale loro esenzione di responsabilità a fronte di detta vaccinazione.

Qualcuno ha detto che si tratta di due cose diverse: uno lo scudo penale, l’altra i rischi concreti della vaccinazione; ma a me, invece, non sembra si tratti di due cose diverse, e mi pare, tutto al contrario, che se i medici, in tanto erano disposti a far partire la campagna vaccinale in quanto protetti da uno scudo, evidentemente consideravano la vaccinazione SARS-CoV-2 diversa dalle precedenti.

Soprattutto, non possiamo non accorgersi che lo scudo penale, mentre protegge i sanitari, al tempo stesso è in grado di mascherare il reale numero dei fatti avversi, poiché questi, infatti, resi irrilevanti sotto il profilo giuridico, non possono più essere oggetto di indagine, atteso che non si fanno indagini per fatti che non costituiscono reato; e l’assenza di indagini, evidentemente, impedisce una visione completa del fenomeno.

c) Infine, si comprende, che rilevare oltre 110.000 casi avversi, a taluno può sembrare fatto di alcuna consistenza, ma per altri può invece rappresentare un numero da non sottovalutare, anche per la circostanza che si tratta di misure che potrebbero essere quantificate per difetto.

E a ciò deve aggiungersi l’ulteriore rischio denominato di “ignoto irriducibile”, riferito ai possibili danni a lungo termine, dei quali, evidentemente, allo stato, niente si sa.

L’irrilevanza, o il basso rischio, dell’evento avverso, non costituisce pertanto un dato giuridico obiettivo, quanto una valutazione discrezionale, che il Consiglio di Stato ha risolto in un certo modo, ma che altri avrebbero potuto, con egual ampiezza di argomenti, risolvere in modo del tutto contrario.  

Ad ogni modo, per il Consiglio di Stato, il vaccino è, nonostante tutto ciò, efficace e sicuro, cosicché il percorso logico può chiudersi asserendo che il rapporto rischi/benefici è favorevole, e il tutto rientra “nella media tollerabile degli eventi avversi già registrati per le vaccinazioni obbligatorie in uso da anni” (punto 36.7).

Io credo, però, che anche questa valutazione non sia esente da dubbi; e quanto alle “vaccinazioni obbligatorie in uso da anni”, vorrei ricordare che trattasi di obbligatorietà ben diverse da quelle odierne, se solo si pensa che, ai sensi dell’art. 1, 4° comma del dl n. 73/2017, il mancato rispetto delle vaccinazioni comporta, per quelle, una sanzione amministrativa da € 100,00 ad € 500,00, e detto mancato rispetto non ha poi conseguenze personali per i bambini da 6 anni di età, poiché l’art. 3 del medesimo decreto legge prevede che il vaccino costituisca condizione di accesso alle sole scuole dell’infanzia e agli asili, mentre “per gli altri gradi di istruzione” (ovvero già dalle scuole elementari) “la presentazione della documentazione di cui al comma 1 non costituisce requisito di accesso alla scuola e agli esami”.

Ciò posto, mi permetto di rilevare quanto segue.    

In primo luogo, asserire che la logica del bilanciamento rischi/benefici sia conforme ai precedenti della Corte costituzionale, a mio parere non è completamente corretto, poiché quelle sentenze non affermavano che la vaccinazione obbligatoria è costituzionalmente legittima se il rapporto rischi/benefici è favorevole, ma statuivano, più restrittivamente, che la vaccinazione obbligatoria è possibile solo quando “esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi sia assoggettato”.

È chiaro che le due cose sono diverse: una cosa, infatti, come nella pronuncia qui annotata, è andare a vedere se in un giudizio di bilanciamento vi siano più rischi o più benefici; altra cosa, come in quelle pronunce della Corte costituzionale, è andare invece a vedere se il vaccinato possa rischiare o meno la propria salute oltre limiti tollerabili, e ritenere che il bilanciamento tra la libertà individuale e la salute collettiva è favorevole a quest’ultimo valore solo quando vi sia da escludere che il vaccino possa pregiudicare “la salute di colui che vi è assoggettato”.

Ora, se le cose stanno più precisamente così, nella misura in cui la stessa sentenza annotata ha riconosciuto che il vaccino ha una autorizzazione condizionata, che sussiste indiscutibilmente un rischio da “ignoto irriducibile”, e che la stessa AIFA indica per l’Italia 101.110 eventi avversi con 608 morti, e lo stesso art. 3 del dl. 44/2021 indirettamente ammette che dal vaccino possono conseguire morte o lesioni, si dovrebbe quanto meno avere dei dubbi sulla possibilità di trarre conclusioni certe in argomento.  

Peraltro, anche l’esigenza di evitare “diritti tiranni” “e cioè diritti che non entrano nel doveroso bilanciamento con egual diritti”, è richiamo, a mio parere, discutibile, poiché nel caso di Corte Cost. 9 maggio 2013 n. 85, espressamente presente sul punto 42.9 dalla sentenza in oggetto, il diritto tiranno non era la libertà individuale, sotteso dalla sentenza, bensì proprio la salute.

Praticamente, si è fatto dire a Corte Cost. 9 maggio 2013 n. 85 il contrario di quello che quella sentenza diceva.

Ricordo che si trattava della vicenda dell’ILVA di Taranto. 

V’era da stabilire, in quel contenzioso, se il diritto alla salute doveva o meno prevalere sugli interessi economici e il diritto al lavoro e alla produzione imprenditoriale.

La Corte costituzionale, con quella pronuncia, dava prevalenza al diritto della produzione e non alla salute, e scriveva che: “il legislatore ha ritenuto di dover scongiurare una gravissima crisi occupazionale, di peso ancor maggiore nell’attuale fase di recessione economica nazionale e internazionale”; e dunque: “la parola fondamentale di cui all’art. 32 Cost. non è rivelatrice di un carattere preminente del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona, mentre la definizione dell’ambiente e della salute come valori primari data dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 365/1993) non implica una rigida gerarchia tra diritti fondamentali”.

Dunque, premesso che il tema della libertà individuale non rilevava in quella vicenda, il diritto tiranno da scongiurare era proprio quello della salute, che non poteva pensarsi come diritto in grado di comprime tutti gli altri.

Una idea, peraltro, perfettamente conforme al pensiero dei costituzionalisti di un tempo.

Mi permetto di ricordare qui un costituzionalista quale Alessandro Pace, il quale scriveva nel 1974: “Va subito affermato che non sembra che l’art. 13 possa cedere all’art. 32; pertanto tutte le restrizioni coattive per motivi di sanità devono di necessità seguire la via giurisdizionale prevista da quell’articolo”. Ed ancora: “D’altro canto mai potrebbe, dall’autorità pubblica, essere invocato l’art. 32 Cost. per derogare, per motivi di salute, alla portata e alle garanzie dell’art. 13”.

Altre precisazioni vanno fatte con riferimento al dovere di solidarietà.

La sentenza ha infatti giustificato l’obbligatorietà della vaccinazione anche sulla base di detto principio, e a tal fine è arrivata ad affermare che: “Il potenziale rischio di un evento avverso per il singolo individuo con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società senza l’utilizzo di quel farmaco”.

Questa affermazione pone, a mio parere, un quesito non secondario.

Nel nostro sistema, direi, non può esser chiesto a nessuno il sacrifico personale per il bene comune.

Altrimenti, nel confronto tra la situazione del singolo e quello della collettività, la valutazione del singolo risulterebbe sempre di gran lunga inferiore rispetto a quella della collettività, cosicché le libertà individuali non sarebbero più ne’ relative ne’ responsabili, come qualcuno le indica, ma semplicemente non esisterebbero, in quanto in concreto rimesse alla libera valutazione del potere pubblico.

Non a caso Corte Cost. 22 giugno 1990 n. 307 affermava che il dovere di solidarietà “non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri”.

E dubbi, ancora, a mio parere, solleva il Consiglio di Stato, laddove, affermando che “la solidarietà è la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione”, cita la pronuncia Corte Cost. 28 febbraio 1992 n. 75 (punto 30.9), perché quella vicenda aveva ad oggetto il volontariato (era in discussione la l. 11 agosto 1991 n. 266, legge quadro sul volontariato) e in quel contesto la Corte costituzionale affermava che “Della natura di tali diritti fondamentali il volontariato partecipa: e vi partecipa come istanza dialettica volta al superamento del limite atomistico della libertà individuale, nel senso che di tale libertà è una manifestazione che conduce il singolo sulla via della costruzione dei rapporti sociali e dei legami tra gli uomini, al di là di vincoli derivanti da doveri pubblici o da comandi dell’autorità”.

È evidente, dunque, che una cosa è la solidarietà quale libera scelta, altra cosa la solidarietà imposta, come qui la si configura.

Se la solidarietà viene imposta, e non è più rimessa alla libertà, o alla volontarietà della persona, essa allora non può spingersi fino a comprendere il sacrificio individuale in nome della collettività.

Altrimenti si apre una stagione nuova, un nuovo equilibrio tra i rapporti tra cittadino e Stato.  

Ed infine, più in generale, io direi che vi sono situazioni che, attenendo a valori centrali della vita, ovvero a diritti definiti dalla nostra stessa costituzione inviolabili, con difficoltà possono essere risolte sulla base di “bilanciamenti”, ovvero di operazioni del tutto soggettive e relative.

Da anni, a mio parere purtroppo, il diritto costituzionale è divenuto invece solo un diritto di bilanciamenti, liberamente esercitabili prima dal potere legislativo, e poi da quello giudiziario; cosicché, di bilanciamento in bilanciamento, tutto diventa incerto ed oscuro, e rischia di far venir meno la stessa funzione di una carta costituzionale, che è quella di assicurare al contrario l’esistenza in modo chiaro, e non discutibile, di alcuni diritti fondamentali dei cittadini.

E, direi, se la Costituzione prevede essa stessa, formalmente e testualmente, un bilanciamento, questo può esser posto in essere dal legislatore o dal giudice, seppur nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità; ma se la costituzione dà un diritto come inviolabile, qual è quello, ad esempio, della libertà personale, o di libertà di manifestazione del pensiero, o del lavoro, e non prevede per essi bilanciamenti di sorta che possano in qualche modo scalfirli, lì nessuno dovrebbe compiere operazioni di bilanciamento, a mio sommesso parere.

Un grande costituzionalista del passato quale Costantino Mortati scriveva sul punto: “Si chiede anche se, oltre ai limiti espressamente formulati dalle disposizioni costituzionali, sia da riconoscerne altri impliciti. Non sembra che esso abbia ragion di esser posto da noi, data l’ampiezza della disciplina racchiusa nel testo costituzionale. In particolare si deve rigettare l’opinione che sia consentito far ricorso, allo scopo di giustificare limiti ai diritti fondamentali, ad un generico principio di ordine pubblico all’infuori dei casi in cui la costituzione lo richiama”

Si tratta di tematiche complesse, che evidentemente non possono essere trattate in questa sede con il dovuto approfondimento.

Tuttavia, in estrema sintesi, a me sembra che un obbligo vaccinale possa darsi solo se il vaccino non presenti rischi che superino la normale tollerabilità per chi lo riceva.

La situazione attuale non sembra presentare, oltre ogni ragionevole dubbio, queste caratteristiche; e desta comunque una certa preoccupazione vedere che si possa risolvere un tema così delicato con strumenti totalmente discrezionali quali quello del bilanciamento rischi/benefici, che possono portare taluni ad affermare una cosa, ed altri ad affermarne un’altra.

E può preoccupare, poi, che si trasformi in “diritto tiranno” semplicemente quello che è un “diritto inviolabile”, ovvero la libertà personale, così come lo stesso art. 13 Cost. lo qualifica.

E preoccupa ancora che il diritto alla libertà personale sia ormai da molti relegato in uno sfondo, considerato un residuo liberale del passato, tanto che non si ha alcun imbarazzo e alcuna difficoltà a comprimerlo come mai precedentemente era avvenuto nella nostra storia della Repubblica, fino a teorizzare il sacrificio individuale in funzione dell’interesse comune.  

In questi giorni si sta parlando di condizionare il mantenimento del green pass alla terza dose di vaccino, si sta valutando l’istituzione di un nuovo lockdown per i soli non vaccinati, oppure la soppressione dei test tamponi per ottenere il green pass.

Non è da escludere che, dopo la terza dose, seguirà forse la quarta, e poi una quinta, e così di seguito, e allora questa sarà la nuova regola: che l’esercizio delle libertà costituzionali è subordinato alla concessione di una autorizzazione governativa, e il Governo ti concede questa autorizzazione solo a tempo determinato, e solo dopo che tu, di volta in volta, hai provveduto all’adempimento dei precetti che ti sono stati comandati”.

LIMITAZIONI DEI DIRITTI FONDAMENTALI AL TEMPO DEL COVID (sentenza Tribunale di Pisa 17 febbraio 2022)

La sentenza n. 1842/2021, emessa in data 8 novembre 2021, depositata in data 17 febbraio 2022, dal Giudice Monocratico del Tribunale Penale di Pisa Lina Manuali affronta tutte le violazioni costituzionali del periodo del covid.

Si tratta di una lucidissima analisi della compressione dei diritti fondamentali realizzata in Italia al tempo della diffusione del virus Sars-Cov2 avuto riguardo alla libertà personale (art. 13 Cost), alla libertà di movimento e di riunione (artt. 16 e 17 Cost.), al diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, anche in forma associata (art. 19 Cost.), al diritto alla scuola (art. 34 Cost.), al diritto al lavoro (art. 36 Cost), al diritto alla libertà di impresa (art. 41 Cost.).

Nella sentenza pisana viene affrontato anche il tema – attualissimo – della proroga dello stato di emergenza.

“Nel momento in cui viene meno lo stato di emergenza, i diritti e le libertà fondamentali debbono riespandersi nel loro alveo originale, poiché la compressione degli stessi ha raggiunto e superato il limite massimo di tollerabilità; compressione che non può ulteriormente protrarsi, né a tempo predeterminato, né, a maggior ragione, ad libitum, attraverso continui e reiterati prolungamenti di operatività”.


Va posto in risalto che il brano che segue si innesta in una decisione su un capo d’imputazione più esteso, ma che annovera la contestazione del reato di cui all’art. 650 c.p. perché gli imputati avrebbero violato “l’ordine imposto con DPCM dell’8/03/2020 per ragioni di igiene e sicurezza pubblica, di non uscire se non per ragioni di lavoro, salute o necessità”.

Nel caso in esame venivacontestata, ai sensi dell’art. 650 c.p., Ia violazione dell’ordine imposto con DPCM dell’8/03/2020, per ragioni di igiene e sicurezza pubblica, di non uscire se non per motivi di lavoro, salute o necessità. In merito a tale reato il Tribunale di Pisa ha ritenuto sussistenti i presupposti per Ia pronuncia di assoluzione nella formula piu ampia e favorevole al reo, perché IL FATTO NON SUSSISTE e non perché il fatto non e piu previsto dalla Iegge come reato, con trasmissione degli atti al Prefetto, in quanto non si reputa il DPCM 08.03.2020 costituente provvedimento legalmente dato dall’Autorità, come per contro richiesto dall’art. 650 cp.


Si rileva che a causa della epidemia da COVID-19, al fine di tutelare Ia salute pubblica, sono state emanate disposizioni che hanno comportato la sospensione e compressione di alcune libertà garantite dalla nostra Carta Costituzionale, come previsti dagli artt. 13 e seguenti della stessa.

Si tratta di libertà che concernono i diritti fondamentali dell’uomo e costituiscono il “nucleo duro” della Costituzione stessa, tanto che, secondo Ia dottrina maggioritaria (Cfr. C.Mortati, in “Una e indivisibile”, Milano, Giuffre 2007, p. 216; G. Azzariti, in Revisione Costituzionale e rapporto tra prima e seconda parte della Costituzione, in Nomos, Quadrimestrale di teoria generale, diritto pubblico comparato e storia costituzionale, n. 1-2016, p. 3.) non sono revisionabili nemmeno con il procedimento di cui all’art. 138 Cost. – Revisione della Costituzione, ragion per cui occorre verificare se, a quali condizioni e con quali modalità, in situazioni emergenziali, tali diritti possano essere compressi a tutela di altri diritti anch’essi costituzionalmente previsti.

Si deve evidenziare che l‘Ordinamento Costituzionale Italiano non contempla ne’ lo stato di eccezione, ne’ lo stato di emergenza, che è una declinazione dell’eccezione, al di fuori dello stato di guerra, previsto all’art. 78 della Cost.

Lo stato di emergenza è una condizione giuridica particolare che può essere attivata al verificarsi di eventi eccezionali. Questa particolare situazione emergenziale richiede, pertanto, un intervento urgente e con poteri straordinari al fine di tutelare i cittadini e porre rimedi ad eventuali danni.

Tuttavia, per fronteggiare una tale situazione gli strumenti idonei a cui si fa ricorso devono trovare, comunque, un fondamento di rango costituzionale, specie per quanto attiene ai presupposti, qualora incidano e impattino su diritti costituzionalmente garantiti.

Orbene, la Costituzione italiana non prevede alcun articolo che disciplini lo stato d’emergenza/d’eccezione, volta a ricomprendere tutte quelle situazioni diverse (purché interne) che non si riferiscano al vero e proprio “stato di guerra” previsto ex art. 78 Cost. (inerente conflitti bellici esterni).

Per altro, Ia situazione attuale causata dal Covid 19 non è nemmeno giuridicamente assimilabile allo “stato di guerra”, per cui non è possibile far ricorso all’applicazione analogica dell’art. 78 Cost.: del resto, l’assenza di uno specifico diritto speciale per lo stato di emergenza è frutto di una consapevole scelta dei padri costituenti; infatti, Ia proposta di introdurre Ia previsione della stato di emergenza per ipotesi diverse da eventi bellici (come ad esempio per motivi di ordine pubblico durante lo stato di assedio) non venne accolta, onde evitare che attraverso la dichiarazione della stato di emergenza si potessero comprimere diritti fondamentali con conseguente alterazione dello stesso assetto dei poteri.

L’allora Presidente della Consulta Marta Cartabia, oggi Ministro della Giustizia, il 28 aprile 2020 ebbe a dichiarare: «Non c’è un diritto speciale, anche in emergenza. La Costituzione sia bussola per tutti».

Peraltro, in dottrina si rileva che all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano sia comunque rinvenibile un “implicito statuto costituzionale dell’emergenza”, quale espressione dei tradizionali principi del primum vivere e del salus rei publicae, è costituito dai principi di unità ed indivisibilità della Repubblica, di tutela della salute pubblica e della pubblica sicurezza, da specifiche fonti sulla produzione normativa determinata dalla necessità ed urgenza e dall’intangibilità dei principi supremi del vigente ordine costituzionale, primi su tutti i diritti fondamentali, i quali – per espressa volontà dei padri costituenti – si trovano tra loro in rapporto di integrazione reciproca e mai di prevalenza di uno rispetto agli altri: “dalla sentenza 83/2013 della Consulta si evince chiaramente che Ia tutela dei diritti non può ingigantirsi a tal punto da tiranneggiare sulla protezione di altri diritti di pari natura costituzionale.”

Pertanto, qualora emergano situazioni emergenziali, in cui si ravvisi Ia necessità di dare attuazione ai principi precauzionali del primum vivere e del salus rei publicae, occorre sempre tener presente che non è possibile istituire una gerarchia tra le varie figure di diritti fondamentali, non sussistendo nell’ordinamento costituzionale alcuna presunzione assoluta di prevalenza di un diritto su tutti gli altri.

Quindi, qualora l’esercizio di un diritto comporti, in caso di necessità ed urgenza, Ia limitazione di altri, ciò deve avvenire nel rispetto dei principi della legalità, riserva di Iegge (assoluta o relativa), necessità, proporzionalità, bilanciamento e temporaneità, in quanta, altrimenti, si determinerebbe l’insorgere del cd. “diritto tiranno” (avanti al quale tutti gli altri diritti dovrebbero soccombere), con conseguente non solo violazione della Costituzione, ma addirittura superamento del perimetro delineate dalla carta costituzionale (non una incostituzionalità ma una “a-costituzionalità“, Cfr. F.Giulimondi, “Ia Costituzione ai tempi del coronavirus (sottacendo sulla “costituzione sospesa“)”, in Foroeuropa, 2020, n. 2).

Poiché nella situazione venutasi a creare con Ia diffusione del virus denominato Sars-Cov-2, si è ravvisata Ia necessità di contemperare Ia tutela dei diritti fondamentali del singolo individuo con quella della salute pubblica, garantita dall’art. 32 Cost., non è irrilevante, ai fini del decidere, verificare se la composita filiera normativa emergenziale posta in essere dal Governo – costituita dalla deliberazione dello stato di emergenza e successive proroghe, dai decreti Iegge e dai DPCM – rispetti o meno principi di legalità e di riserva di Iegge, di temporaneità, ragionevolezza, bilanciamento, e proporzionalità, così come sanciti dalla Carta Costituzionale, e se, pertanto, le delibere emesse dal Consiglio dei Ministri, i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri abbiano o meno una copertura normativa.

Lo statuto dell’emergenza ad hoc (come definite da autorevole dottrina, Cfr. M. Calame Specchia, A Lucarelli, F. Salmoni – Sistema Normativo delle fonti nel governo giuridico della pandemia. lllegittimità diffuse e strumenti di tutela, in Rivista AIC 2021 n. 1), delineate dal Governo, trae “origine” dalla Delibera 20 del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 – emessa in forza del combinato disposto degli artt. 7, comma 1, lettera c), e 24, comma 1 del decreto legislativo  gennaio 2018, n. 1 – con cui veniva dichiarato per sei mesi lo stato di emergenza nazionale “in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

II D.Lvo n. 1 del 02.01.2018 (c.d. Codice della Protezione Civile), prevede, infatti, all’art. 24, Ia deliberazione da parte del Consiglio dei Ministri dello stato di emergenza, da pubblicarsi sulla Gazzetta Ufficiale, qualora ricorrano le “emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo di cui all’art. 7 lett c). Tale delibera rientra nel novero dei provvedimenti non aventi forza di Iegge, di cui alla previsione di cui alla lett. a) dell’art. 3 (Norme in materia di controllo della Corte dei conti) della Iegge n. 20/1994, e, come tale – anche per espressa previsione del comma 5 dell’art. 24 D.Lgs. n. 1/2018 -, essa è esclusa da qualsiasi controllo preventivo circa Ia legittimità e fondamento, · mentre rimane soggetta al successivo vaglio dell’autorità giudiziaria.

Pertanto, si deve verificare se Ia delibera de qua sia stata effettivamente emanata sulla base di sussistenti presupposti normativi.

Orbene, il D.Lgs n. 1/2018 all’art. 7 individua le tipologie degli eventi emergenziali, fra le quali rientrano, lett. c), le: “emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24”.

Si tratta a questo punto di verificare se il “rischio sanitario” connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, fondante Ia delibera del Consiglio dei Ministri, rientri o meno negli “eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo”, di cui all’art. 7 sopra citato, evidenziandosi che per tali si intendono le calamità naturali, quali terremoti, maremoti, alluvioni, valanghe ed incendi.

Si deve rilevare come l’epidemia o la pandemia non rientrino in alcun modo nell’ambito della calamità naturale, per il semplice motivo che sono dimensioni di crisi del tutto diverse fra di loro.

lnfatti, Ia pandemia, e “una epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territori e continenti.

La pandemia può dirsi realizzata soltanto in presenza di queste tre condizioni: un organismo altamente virulento, mancanza di immunizzazione specifica nell’uomo e possibilità di trasmissione da uomo a uomo; l’epidemia è una manifestazione collettiva d’una malattia (colera, influenza ecc.), che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto in dipendenza da vari fattori, si sviluppa con andamento variabile e si estingue dopo una durata anche variabile.”

La calamità naturale si configura dinanzi ad “ogni fatto catastrofico, ragionevolmente imprevedibile, conseguente a eventi determinanti e a fattori predisponenti tutti di ordine naturale, e a foro volta ragionevolmente imprevedibili”.

La calamità naturale, pertanto, non ha nulla a che fare con l’epidemia/pandemia, provocata da agenti virali o batterici.

II Legislatore, nel redigere un testo onnicomprensivo sulla Protezione civile come il d.lgs. 1/2018, non ha indicato il rischio epidemico fra quelli a causa dei quali occorre intervenire, previa dichiarazione di stato di emergenza comunale, regionale o nazionale.

II Legislatore, ad esempio, cita nel dettaglio l’inquinamento marino all’art. 24, comma 8, d.lgs. 1/2018, ma non fa alcun riferimento all’epidemia.

Certamente non è credibile inserire il plesso epidemia-pandemia nella locuzione “rischio igienico-sanitario”, ex art. 16, comma 2, d.lgs. 1/2018.

II rischio igienico sanitario – di competenza delle ASL- individua e valuta i fattori di rischio chimico e biologico, oltre le relative misure di prevenzione e protezione per la salute dei lavoratori, dei consumatori e degli utenti, nonché le misure di sicurezza per la salubrità degli ambienti di lavoro e professionali, di ristorazione, intrattenimento e commercio, degli edifici e delle strade a partire dalla raccolta e gestione dei rifiuti e, infine, degli alimenti e dei prodotti eno-agro-gastronomici.

Dentro i confini ristretti del rischio igienico sanitario – di competenza legislativa esclusiva delle Regioninon si possono far rientrare le dimensioni nazionali ed internazionali di una pandemia, di spettanza normativa esclusiva dello Stato. Pertanto, le disposizioni normative poste a base della dichiarazione dello stato di emergenza del 31.01.2020 nulla hanno a che vedere con situazioni di “rischio sanitario”, qual è quello derivato dal virus Sars-Cov-2 (certamente evento calamitoso), riguardando altri e diversi eventi di pericolo: “eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo” (recita l’art. 7 comma 1) lett. C D.Lgs n. 1118), vale a dire calamità naturali, quali terremoti, maremoti, alluvioni, valanghe ed incendi, con Ia conseguenza che viene meno il fondamento giuridico di rango primario della delibera del 31.01.2020.

Venendo meno la fonte normativa primaria, occorre far ricorso alla Carta Costituzionale e, come già sopra ampiamente argomentato, in essa non è riscontrabile alcuna disposizione che conferisca poteri particolari al Governo, tranne che venga deliberato dalle Camere lo stato di guerra, nel qual caso (le Camere) “conferiscono al Governo i poteri necessari” (art. 78 Cost.).

Manca, perciò, un qualsivoglia presupposto legislativo su cui fondare Ia delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2020, con consequenziale illegittimità della stessa per essere stata emessa in violazione dell’art. 78, non rientrando tra i poteri del Consiglio dei Ministri quello di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria.

In conclusione, Ia delibera dichiarativa dello stato di emergenza adottata dal Consiglio dei Ministri il 31.1.2020 è illegittima per essere stata emanata in assenza dei presupposti legislativi, in quanto non è rinvenibile alcuna fonte avente forza di Iegge, ordinaria o costituzionale, che attribuisca al Consiglio dei Ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario.

A fronte della illegittimità della delibera del CdM del 31.01.2020, devono reputarsi illegittimi tutti i successivi provvedimenti emessi per il contenimento e Ia gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID 19, nonché tutte le successive proroghe dello stesso stato di emergenza.

Peraltro, oltre all’acclarata illegittimità della dichiarazione dello stato di emergenza, si ravvisano violati i principi di legalità e di riserva di legge, in quanto – nel modello emergenziale costruito dal Governo – le libertà fondamentali sarebbero state limitate formalmente da norme di rango primario (ovvero dai vari decreti Iegge fin in qui adottati) ma nella sostanza sono state compresse dai DPCM, atti di natura amministrativa.

Con Ia dichiarazione dello stato di emergenza, il Governo assume Ia gestione dell’emergenza sanitaria da Covid 19, mediante il ricorso alia decretazione d’urgenza, di cui all’art. 77 Cost., a sua volta posta alia base dei DPCM, con i quali sono state adottate misure più stringenti e limitative dei diritti fondamentali degli individui, anche rispetto a quanto previsto negli stessi decreti – Iegge, primo tra tutti il decreto Iegge n. 6 del 23 febbraio 2020.

lnvero, il D.L. n. 6/2020 costituisce una “delega in bianco” a favore del governo, dotando sé stesso e lo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri di poteri extra ordinem.

Difatti, il DL n. 6/2020 conferisce al Governo ed in particolare al Presidente del Consiglio – all’art. 1 – ampi poteri con delega in bianco, con il limite del rispetto dei criteri dell’adeguatezza e della proporzionalità, laddove si dispone che “le autorità competenti possono adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”, nonché – all’art. 2 – una delega in bianco, senza limitazione alcuna, laddove si dispone che “le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire Ia diffusione dell’epidemia da COVID-19”, senza specificazione alcuna in ordine alia tipologia e aile misure atipiche, anche fuori dai casi disciplinati dall’articolo 1, comma 1 e, dunque, diverse da quelle previste nel decreto Iegge in questione, con ciò eludendo sia Ia riserva di Iegge posta a livello costituzione, sia il principio di legalità non solo formale ma anche sostanziale.

Quindi, ogni misura di contenimento e di gestione dell’emergenza, dettata dall’evolversi della situazione epidemiologica, e adottata, sulla base della suddetta procedura, nella forma giuridica del DPCM, ovvero di un atto monocratico, di titolarità e responsabilità politica del presidente del consiglio dei ministri, come tale sottratto al vaglio del Presidente della Repubblica, del Parlamento, della Corte Costituzionale e della stessa Corte dei Conti. 24 In tal modo – come affermato da autorevole dottrina cui si intende aderire (cfr. A. Lucarelli – Costituzione, fonti del diritto ed emergenza sanitaria, in Rivista AIC 2020 n. 2) – il fondamento giuridico, costituito dai decreti Iegge, si presenta a “maglie larghe“, consentendo ai dpcm un eccesso di discrezionalità, non proporzionata ed adeguata.

Essi, pertanto, esplicano, di fatto, Ia loro carica e funzionalità emergenziale con una portata extra ordinem, tale da violare riserva di Iegge assoluta e principio di legalità sostanziale.

Difatti, il governo non perimetra, né limita l’azione dei DPCM.

Nel caso di specie, si tratta di un ampio trasferimento di poteri a favore del presidente del consiglio dei ministri che, con discrezionalità, ogni qualvolta ritenga che Ia misura sia adeguata e proporzionata per affrontare Ia crisi epidemiologica, può adottare atti amministrativi, e finisce per innovare l’ordinamento giuridico.

Di fatto, Ia riserva di Iegge assoluta che, a determinate condizioni, legittima Ia limitazione dei diritti fondamentali, a partire dalla libertà di circolazione, si trasforma in una riserva di atto amministrativo (dpcm), con un evidente vulnus al principio di legalità sostanziale.

L’innovazione ordinamentale, introdotta dai DPCM, si palesa laddove Ia norma (decreto-legge), che si atteggia nebulosamente quale fondamento attribuzione del potere, non delinea né limiti formali, né sostanziali all’esercizio di tale potere, al di fuori della locuzione «adozione di atti adeguati e proporzionati per affrontare la crisi».

Si tratta, dunque, di atti amministrativi capaci di incidere potenzialmente ed in effetti incidono su tutta la prima parte della Costituzione, con violazione della riserva di legge assoluta e del principio di legalità.

Pare evidente come sia stata conferita al Presidente del Consiglio una delega generale, sia in violazione dell’art. 76 Cost. (rilevandosi che una siffatta delega non potrebbe nemmeno essere conferita al Consiglio dei Ministri, senza indicazione da parte del Legislatore (rectius Parlamento) dei limiti e degli ambiti in cui esercitare la funzione legislativa delegata), sia in violazione dell’art. 78 Cost., in quanto la situazione di emergenza sanitaria non rientra nella previsione di tal norma costituzionale (ove, per altro, si parla di conferimento al Governo, quale organo collegiale, dei poteri necessari e non di certo qualsiasi potere). In altri termini, viene delegato al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di attuare misure restrittive, molto ampio e senza indicazione di alcun limite, nemmeno temporale, con compressione di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, quali Ia libertà personale (art. 13 Cost), Ia libertà di movimento e di riunione (artt. 16 e 17 Cost.), il diritto di professare liberamente Ia propria fede religiosa, anche in forma associata (art. 19 Cost.), il diritto alia scuola (art. 34 Cost.), il diritto al lavoro (art. 36 Cost), il diritto alia libertà di impresa (art. 41 Cost.), e tutto ciò, si ribadisce, non con legge ordinaria, ma con un decreto del Presidente del Consiglio, che risulta inficiato da illegittimità per diversi motivi, tra cui: a) mancanza di fissazione di un effettivo termine di efficacia; b) elencazione meramente esemplificativa delle misure di gestione dell’emergenza adottabili dal Presidente del Consiglio dei Ministri; c) omessa disciplina dei relativi poteri.

Pertanto, alia luce delle deduzioni sopra svolte, si deve rilevare, a parere di questo giudice e non solo, come da argomentazioni di eminenti costituzionalisti ed ex presidenti, vice presidenti e consiglieri della Corte Costituzionale (Cassese, Baldassarre, Marini, Cartabia, Onida, Maddalena), oltre che da decisioni di giudici di merito (Frosinone, Roma, Reggio Emilia), Ia indiscutibile illegittimità del DPCM del 8/3/2020 (come pure di quelli successivi emanati dal Presidente del Consiglio dei Ministri), ove viene stabilito all’art. 1 che, allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, sono adottate le misure volte ad evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessita ovvero spostamenti per motivi di salute, consentendo il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza;” e ove, all’art. 4, rubricate Monitoraggio delle misure, il mancato rispetto degli obblighi di cui al DPCM de quo viene punito ai sensi dell’art. 650 c.p.

Disposizione poi estesa a tutto il territorio nazionale per effetto del D.P.C.M. 9 marzo 2020, recante misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale, innovando l’ordinamento giuridico con misure sempre più stringenti e limitative delle libertà.

Difatti, con tali provvedimenti, aventi natura meramente amministrativa, si è stabilito un divieto generale e assoluto di spostamento, salvo alcune eccezioni; divieto che si configura, perciò, in un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare e come tale limitativo del diritto di libertà personale, rilevandosi come Ia possibilità di spostamento per comprovate esigenze lavorative veniva riconosciuto unicamente ai lavoratori che esplicavano Ia propria attività nell’ambito dei c.d. servizi essenziali, mentre tutte le restanti attività economiche erano state sospese.

Per Ia nostra Costituzione uno dei diritti fondamentali, il più importante, è costituito dalla libertà personale.

lnfatti, dopo l’art. 3, che sancisce Ia pari dignità sociale di tutti i cittadini, Ia Carta Costituzionale indica una serie di diritti inviolabili, fra i quali pone al primo posto quello della libertà personale, l’art. 13, il quale nei primi tre commi dispone: “La libertà personale e inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla Iegge.

In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla Iegge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. [ …)”, sancendo cosi l’inviolabilità della persona (habeas corpus) nei confronti di potenziali abusi delle pubbliche autorità e richiedendo Ia sussistenza di precisi presupposti giuridici per poterne limitare Ia libertà.

Esso si presenta, cioè, non “come illimitato potere di disposizione della persona fisica, bensi come diritto a che l’opposto potere di coazione personale, di cui lo Stato e titolare, non sia esercitato se non in determinate circostanze e col rispetto di talune forme” (Corte Cost. sentenza n. 11/1956).

Nel nostro ordinamento giuridico, l’obbligo di permanenza domiciliare configura una fattispecie restrittiva della libertà personale e, in quanto tale, può essere irrogata solo dal Giudice con atto motivato nei confronti di uno specifico soggetto, sempre in forza di una Iegge che preveda “casi e modi”.

Quindi, “in nessun caso l’uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le ragioni” (Corte Cost. sentenza n. 11 del 19 giugno 1956), avendo il Costituente posto a tutela della inviolabilità personale tre garanzie: a) Ia riserva di Iegge assoluta, per cui solo il legislatore può intervenire in materia e porre dei limiti; b) Ia riserva di giurisdizione, potendo solo l’autorità giudiziaria emettere provvedimenti restrittivi della libertà personale; c) l’obbligo di motivazione, dovendo essere esplicitate le ragioni alla base dei provvedimenti restrittivi.

Perciò, il vietare ad una persona fisica ogni spostamento anche all’interno del territorio in cui vive o si trova, configurandosi quale vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare, a mente dell’ art. 13 Cost., richiede una specifica disposizione legislativa e un atto motivato dell’autorità giudiziaria.

Consegue, allora, che un DPCM, fonte meramente secondaria, non atto normativo, non puo disporre limitazioni della libertà personale, come invece disposto dal DPCM del 8/3/2020, ove sono adottate le misure volte ad evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori previsti dal medesimo decreto, nonché all’interno dei medesimi territori, e successivamente estese a tutto il territorio nazionale dal DPCM 09.03.2020, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute” ed una siffatta previsione viola all’evidenza il citato art. 13 Cost. 28.

Altro diritto che risulta violato e quello della libertà di circolazione, di cui all’art. 16 Cost., in forza del quale “Ogni Cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza … “.

L’art. 16, come e dato leggere, afferma e tutela Ia libertà di circolazione dei cittadini, cioè Ia libertà di muoversi liberamente da un luogo ad un altro, senza necessità alcuna di richiedere permessi o render conto ad alcuno dei motivi dei propri spostamenti, e, nel far salve le limitazioni a tale libertà, pone dei limiti alia discrezionalità del legislatore, predeterminando già alcuni contenuti che la legge deve avere, c.d. principio di riserva di Iegge rinforzata, in quanto Ia libertà di circolazione e soggiorno può essere impedita solo in via generale, nel senso che l’inciso “limitazioni che la legge stabilisce in via generale” “debba essere applicabile alia generalità dei cittadini, non a singole categorie” (cfr. Corte Cost. n. 2/1956), e per motivi di sanità e sicurezza, principio che comunque impedisce restrizioni stabilite sulla base di atti aventi natura diversa dalla legge statale.

Le limitazioni sono dunque garantite da una riserva di legge, con la conseguenza che solo atti aventi valore primario possono prevederle (legge, decreto legge e decreto legislativo) e non provvedimenti aventi natura amministrativa, quali sono per l’appunto i DPCM.

Per altro, come già in precedenza rilevato, il Decreto Legge del 23.02.2020 n. 6, convertito, con modifiche, dalla legge del 05.03.2020 n. 13, nell’attribuire alle autorità competenti il potere di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica.”, faceva riferimento ad alcune zone specifiche, alle zone c.d. “rosse”, e non già all’intero territorio nazionale e, né in sede di conversione del decreto, né con altra fonte primaria, è dato rinvenire alcuna estensione, tant’è che il DPCM deii’08.03.2020 si applicava solo alla regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano[-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, mentre solo con il DPCM del 09.03.2020 venivano estese le disposizioni del primo DPMC a tutto il territorio nazionale.

Consegue, allora, che le misure limitative alia libertà di circolazione di cui ai successivi DPCM risultano essere prive di fondamento legislativo di rango primario, in patente violazione, quindi, della stessa riserva di legge di cui all’art. 16 Cost.

Né può costituire fonte di rango primario l’art. 2 del decreto DL n. 6/2020 (“Ulteriori misure di gestione dell’emergenza -1. Le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all’articolo 1, comma 1.”) ove quel semplice rinvio a “ulteriori misure”, senza specificazione alcuna in ordine alia tipologia, misure atipiche, diverse da quelle previste dall’art. 1, costituisce di fatto un vulnus ed elusione alia riserva di legge imposta dall’art. 16 Cost.

Non può invocarsi, al fine di attribuire efficacia e legittimità dei DPCM 08.03.2020 e 09.03.2020, Ia clausola di salvezza degli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanate ai sensi del DL n. 6/2020, contenuta nell’art. 2 comma 3 del DL del 25.03.2020 n. 19, prevista a fronte dell’espressa abrogazione del DL n. 6/2020, già convertito con Ia L. 5.03.2020 n. 13, ad eccezione degli articoli 3, comma 6-bis, e 4, ma comprovante la carenza della disciplina dettata dall’art. 2 del DL n. 6/2020, in merito alia mancata specificazione contenutistica dei DPCM.

Difatti, benché l’art. 2 comma 3 del D.L. n. 19/2020 faccia salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanate ai sensi del DL n. 6/2020, si ritiene che tale clausola non possa incidere sulla invalidità derivata di cui sono, comunque, affetti i provvedimenti nel frattempo emanati, tra cui per l’appunto i DPCM e i conseguenziali atti amministrativi, considerato che il principio di legalità presuppone che Ia norma abilitante preceda e non segua quella abilitata e che il nesso tra Ia situazione emergenziale e le misure adottate deve essere rigorosamente individuate, in modo che possa essere rispettato il criterio di proporzionalità e adeguatezza a superare l’emergenza e a ripristinare Ia normalità sociale e costituzionale.

D’altro canto, proprio Ia salvezza degli effetti di atti invalidi, in quanto derivanti da fonte normativa (DL n. 6/2020) costituzionalmente illegittima (per violazione dei principi di riserva di legge e di legalità) determina la stessa illegittimità costituzionale dell’art. 2 comma 3 del DL n. 19/2020, ciò in quanto esso si pone in rapporto di reiterazione implicita del DL n. 6/2020, che continua così a fungere da base legale (non conforme alia Costituzione) dei DPCM emanati ed emandandi.

Peraltro, si deve notare come nel corso della gestione della situazione emergenziale, il Governo abbia proceduto a ripetute e successive proroghe della stato di emergenza, che hanno previsto ad oggi come termine ultimo il 31.03.2022, il che dimostra, in realtà, il passaggio dallo stato di emergenza epidemiologico alia gestione ordinaria dell’epidemia, con il conseguente venir meno dei presupposti di temporaneità e, dunque, di straordinarietà giustificativi dell’adozione dei decreti legge e conseguentemente dei DPCM.

Non si può non evidenziare come, con il protrarsi dell’emergenza, si sia assistito al continuo riutilizzo della decretazione di necessità e di urgenza, benché tale “modus operandi” non possa più essere assolutamente considerato una situazione straordinaria e temporanea, determinando una lesione delle prerogative del Parlamento, a cui viene di fatto assegnato il ruolo di mero ufficio di conversione in legge dei decreti del Governo.

Peraltro, occorre rilevare come, a distanza di due anni del suo inizio, uno stato di emergenza prorogato per accordo politico – anzi per negoziazione fra parti della Stato – è una contraddizione in termini, in quanta “normalizza” l’eccezionalità, per cui non servono più situazioni impreviste ed eventi fuori dall’ordinario e basta il principio della precauzione per invocare poteri speciali e non più emergenziali.

Pertanto, al netto di tutte le considerazioni già svolte in merito alia illegittimità della dichiarazione di emergenza a far data dal 31.01.2020, inficiante tutte le successive proroghe, non può non evidenziarsi il venir meno dei presupposti di temporaneità, straordinarietà e necessità, posti a base della concatenazione normativa e amministrativa posta in essere dall’Esecutivo.

II Governo ha deliberato lo stato di emergenza in forza dell’art. 24 del D.Lvo n. 1/2018, il quale – nel prevedere in modo esplicito il termine di durata della stato di emergenza di rilievo nazionale – dispone, al quarto comma, che esso non può superare i 12 mesi ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi.

Sennonché, lo stato di emergenza è stato dichiarato (nella sua prima fase genetica per Ia minor durata di sei mesi) dal 31.01.2020 al 31.07.2020, per poi essere prorogate con deliberazione del Consiglio dei Ministri del 29.07.2020 (quale primo atto di proroga), cui sono seguite le successive proroghe sino al 15 ottobre 2020, poi al 31 gennaio 2021, poi al 30 aprile 2021, al 31 luglio 2021, al 31.12.2021 e infine al 31.03.2022.

Da ciò si deduce che il termine massimo di proroga di 12 mesi previsto dal codice della protezione civile è spirato il 31 .07.2021 e che il DL n. 105/2021 (che ha prorogato lo stato di emergenza al 31.12.2021) ed il DL n. 221/2021 (che ha prorogato lo stato di emergenza fino al 31.03.2022), nonché tutti i Decreti Iegge e provvedimenti amministrativi medio tempore emessi a far data dal 31.07.2021, si pongono al di fuori del “circuito di legittimazione offerto dalla dichiarazione di emergenza” ed eludono il disposto del su citato art. 24 comma 3 D.Lvo n. 1/2018 (Cfr. M. Calamo Specchia, relazione scritta audizione del 06.10.2021 in Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica).

Peraltro, anche qualora si dovesse interpretare Ia norma de qua nel senso di attribuire allo stato emergenziale nazionale Ia durata massima di 24 mesi, il termine decorrente dal 31.01.2020 giunge comunque a scadenza il 31.01 .2022, con il che Ia proroga ultima al 31 .03.2022 si pone comunque in contrasto con la norma succitata – eludendola – evidenziandosi come nel nostro ordinamento giuridico non sia ammessa l’introduzione di un diritto speciale del diritto speciale.

lnfine, va da sé che il requisito della temporaneità risulta facilmente aggirabile attraverso il meccanismo della reiterazione del decreto-legge, non coperto dalla dichiarazione di emergenza, evidenziandosi come Ia mancanza della stessa dichiarazione di emergenza determini il venir meno del presupposto giustificativo della deroga ai diritti fondamentali.

D’altro canto tale deroga non può proseguire oltre, anche alia luce della sentenza n. 213/2021 della Corte Costituzionale, la quale in tema di proroga del blocco degli sfratti per morosità, riconosce che, trattandosi di una misura dal carattere intrinsecamente temporaneo in quanto destinata ad esaurirsi entro il 31 dicembre 2021, non vi è possibilità di ulteriore proroga, atteso che la compressione del diritto di proprietà ha raggiunto il limite massimo di tollerabilità, pur considerando Ia sua funzione sociale (articolo 42, secondo comma della Costituzione).

Ma se si è pervenuti ad una tale enunciazione con riferimento al diritto di proprietà, riconosciuto dall’art. 42 Cost., a maggior ragione, deve pervenirsi a siffatta conclusione in merito alle libertà ed agli altri diritti fondamentali, evidenziandosi come – in questo periodo emergenziale – tutte le libertà costituzionali siano state trasformate in libertà autorizzate (cit. A. Mangia in il Sussidiario. net).

Con il susseguirsi – spesso in sovrapposizione tra loro – di decreti legge e DPCM, si è assistito all’introduzione di sempre più stringenti restrizioni e limitazioni nell’esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali, fino ad arrivare ad incidere sui diritto al lavoro e ad un’equa retribuzione, con violazione dell’art. 36 Cost, il quale riconosce al lavoratore il diritto ad una retribuzione (…) in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alia propria famiglia una esistenza libera e dignitosa; nonché fino ad escludere una categoria di persone dalla vita sociale, e dunque, da tutte quelle attività che attengono alia sfera della libertà personale, intesa quale diritto di svolgere attività che sviluppino Ia propria dimensione psicofisica (come riconosciuta dal combinato disposto degli artt. 2 e 13 Cost.), piuttosto che alia sfera della libertà di circolazione.

II tutto in violazione dell’art. 3 Cost., il quale, al comma 1, sancisce il principio di uguaglianza, in forza del quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla Iegge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali o sociali”, e, al comma 2, statuisce il dovere inderogabile della Repubblica di “rimuovere (con implicito divieto di introdurre) gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Pertanto, quando si introducono misure potenzialmente lesive del principio di eguaglianza e della dignità sociale, occorre far riferimento al rispetto della persona umana, in quanto Ia dignità della persona e il “criterio di misura della compatibilità dei bilanciamenti, continuamente operati dal legislatore e dai giudici, con il quadro costituzionale complessivo.

Sarebbe necessaria, in occasione di ogni operazione di bilanciamento, chiedersi se il risultato incide negativamente sulla dignità della persona, oppure se rimane intatta Ia sua consistenza” (Cfr. G. Silvestri, L’individuazione dei diritti della persona, in Diritto penale contemporaneo).

Dunque, le misure con cui si comprimono diritti e libertà fondamentali dell’uomo non debbono mai incidere sulla dignità umana e Ia tutela dell’interesse della salute collettiva, che con esse si intende perseguire, non può mai superare il limite invalicabile del rispetto della persona umana.

II superamento di tale limite, oltre a porsi in contrasto con Ia Costituzione (se non addirittura a porsi al di fuori del perimetro della stessa), può condurre (come, in effetti, conduce) alia violazione dei Trattati lnternazionali e della Carta Europea dei Diritti Fondamentali deii’Uomo, che sanciscono l’inviolabilità dei diritti fondamentali dell’uomo e della dignità della persona umana.

lnfine, pur ribadendo tutte le considerazioni svolte in merito alle sopra indicate questioni di illegittimità, gli effetti di tutte le misure restrittive, adottate in questo periodo emergenziale, non possono protrarsi oltre il periodo della vigenza dello stato di emergenza, in quanto esso ha costituito e costituisce il presupposto che ne ha giustificato l’adozione.

Per cui, nel momento in cui viene meno lo stato di emergenza, i diritti e le libertà fondamentali debbono riespandersi nel loro alveo originale, poiché la compressione degli stessi ha raggiunto e superato il limite massimo di tollerabilità; compressione che non può ulteriormente protrarsi, né a tempo predeterminato, né, a maggior ragione, ad libitum, attraverso continui e reiterati prolungamenti di operatività.

In caso contrario, le libertà ed i diritti fondamentali, costituzionalmente riconosciuti e garantiti, verrebbero svuotati nel loro nucleo essenziale, e degradati, come tali, a meri simulacri.

lnfine, per completezza decisione, altro aspetto di illegittimità di cui sono affetti i DPCM giova ripetere atti amministrativi, deve ravvisarsi in un ricorrente difetto di motivazione.

L’art. 3 L. n. 241 del 1990, sancisce «ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato [ … ]. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria». II legislatore ha reso, pertanto, essenziale Ia motivazione, sotto l’aspetto sia testuale (deve essere motivato) che contenutistico (La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato Ia decisione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria).

La motivazione dell’atto amministrativo può essere indicata anche per relationem, nel senso che essa può essere espressa anche con il riferimento ad atti del procedimento amministrativo come, ad esempio, pareri o valutazioni tecniche.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, nel caso di provvedimento motivato per relationem, sebbene non occorra necessariamente che l’atto richiamato dalla motivazione sia portato nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, essendo invece sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi o Ia tipologia dell’atto richiamato, tuttavia esso deve essere messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte (Cfr. Consiglio di Stato sentenza n. 8276 del 3 dicembre 2019: «va ammessa Ia motivazione per relationem, purche l’atto [ … ] al quale viene fatto riferimento, sia reso disponibile agli interessati e non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all’interno del medesimo procedimento»).

In breve sintesi, l’atto amministrativo ben può fondare Ia propria motivazione su un altro atto, ma a condizione che l’atto richiamato sia reso disponibile agli interessati, non si faccia riferimento a pareri in contrasto con altri pareri o con determinazioni rese all’interno del medesimo procedimento.

L’art. 21 septies L. n. 241/90 sancisce, a sua volta, “E’ nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali”.

Pertanto, alia luce di quanto disposto dall’art. 3 della L. n. 241/1990, deve ritenersi invalido per violazione di legge l’atto amministrativo sfornito di motivazione ovvero non esprima compiutamente i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche alia base dell’atto, ovvero non indichi l’atto cui fa riferimento per Ia motivazione o non lo renda disponibile.

Orbene, provvedimenti emanati per fronteggiare l’emergenza epidemiologica, oggetto del presente procedimento, hanno fatto uso per lo più proprio della tecnica della motivazione “per relationem”, con particolare riguardo ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico (CTS).

Come è notorio, vi sono stati casi in cui tali atti non solo sono stati resi noti dopo lungo tempo, o addirittura in prossimità della scadenza di efficacia dei DPCM, ma addirittura classificati come “riservati”, o meglio “secretati” (come i cinque verbali datati 28 febbraio, 1 marzo, 7 marzo, 30 marzo e 9 aprile 2020, del CTS, che hanno costituito Ia base delle misure di contenimento adottate per l’emergenza COVID, con omissione degli allegati e documenti sottoposti alle valutazioni del CTS), vanificando di fatto Ia stessa procedura di accesso agli atti e rendendo impossibile Ia stessa tutela giurisdizionale. In sostanza, e stata posta in essere tutta una situazione che di fatto non ha consentito Ia disponibilità stessa degli atti di riferimento, posti a base del provvedimento, con consequenziale invalidità dello stesso provvedimento.

Perciò, da quanto sopra esposto e argomentato, non si ritiene di poter dubitare della illegittimità e invalidità dei DPCM che hanno imposto Ia compressione di diritti fondamentali e, quindi, dello stesso DPCM del 8/3/2020, che qui interessa e degli altri atti normativi ed amministrativi conseguenti e susseguenti. Consegue che, trattandosi di atti amministrativi e non legislativi, non soggetti al vaglio della Corte Costituzionale, affermata Ia illegittimità dei medesimi per contrasto con gli artt. 13 e ss. Costituzione, oltre che di altre disposizioni legislative, il Giudice deve unicamente procedere alia loro disapplicazione, in ossequio dello stesso dettato dell’art. 5 della Iegge 2248/1865 all. E, in forza del quale “(…) le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”. In ragione di quanto sopra detto e argomentato, dovendosi procedere alia disapplicazione del DPCM del 08.03.2020, si deve concludere per la dichiarazione di inesistenza di alcuna condotta criminosa ascrivibile in capo agli imputati, e si deve conseguentemente pronunciare sentenza di assoluzione, nei confronti degli stessi, perché il fatto non sussiste, nella formula all’evidenza più favorevole al reo, anziché perché il fatto non è più previsto dalla Iegge come reato.

lnfatti, a fronte della depenalizzazione operata dall’art. 4 del D.L. n. 19/20, per i fatti posti in essere prima dell’entrata in vigore dello stesso, alla pronuncia di assoluzione con Ia formula perché il fatto non è più previsto dalla Iegge come reato, si dovrebbe poi procedere alla trasmissione degli atti al Prefetto per Ia comminazione della sanzione amministrativa, con pregiudizio per gli odierni imputati, stante la palese illegittimità del DPCM del 08.03.2020.

Smart working – Procedura semplificata di comunicazione fino al 31 marzo 2022

Il datore di lavoro del settore privato può comunicare l’avvio del lavoro agile senza essere obbligato ad allegare alcun accordo con il singolo lavoratore. E’ uno dei chiarimenti forniti dal Ministero del Lavoro, con l’aggiornamento delle FAQ, in virtù delle novità previste dal decreto Natale.

Fino al 31 marzo 2022 le comunicazioni di smart working nel settore privato vanno effettuate esclusivamente attraverso la procedura semplificata già in uso ai sensi del DPCM 1 marzo 2020 (per la quale come detto non è necessario allegare alcun accordo con il lavoratore), utilizzando esclusivamente la modulistica (Template per comunicare l’elenco dei lavoratori coinvolti)e l’applicativo informatico resi disponibili dal Ministero del Lavoro e delle politiche Sociali.

Non sono ammesse altre modalità per l’invio della comunicazione.

Per i quesiti sull’utilizzo della procedura telematica, è possibile visitare l’URPonline e inviare una richiesta di assistenza.

In merito al green pass, il lavoratore che effettua la prestazione in modalità “agile” non deve necessariamente essere in possesso della certificazione verde in quanto non dovrà condividere gli ambienti di lavoro con altri lavoratori.

Il datore di lavoro dovrà fare attenzione qualora voglia richiedere la prestazione lavorativa nei locali aziendali.

Il 7 dicembre 2021 il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha raggiunto l’accordo con le parti sociali sul primo “Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile” nel settore privato.

La circolare 5 gennaio 2021 dei ministri Brunetta e Orlando raccomanda, inoltre, di usare al massimo la flessibilità consentita dalle regole vigenti sul lavoro agile.

Il Ministero del Lavoro ha provveduto ad aggiornare le FAQ in materia smart working anche alla luce delle novità intervenute nel cd. decreto Natale (D.L. n. 221/2021). 

Sono le risposte a domande frequenti che sono pubblicate sul sito internet del Ministero del Lavoro (www.lavoro.gov.it) e spiegano l’indirizzo che il Ministero del Lavoro ha dato all’utilizzo di questo istituto.

Innanzitutto viene spiegato come la proroga dello stato di emergenza nazionale al 31 marzo 2022 riguarda, tra le altre cose, anche l’estensione, al 31 marzo 2022, delle misure per il contenimento dell’epidemia da Covid-19, tra le quali è presente la procedura semplificata per l’attivazione dello smart working.

Il Ministero del lavoro chiarisce che, in forza di quanto disposto dal D.L. n. 221/2021, il termine per l’utilizzo della procedura semplificata di comunicazione dello smart working, di cui all’art. 90, commi 3 e 4, del decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020), è prorogato fino al 31 marzo 2022.

Con la procedura semplificata, effettuabile esclusivamente con l’applicativo informatico messo a disposizione dal Ministero del lavoro, il datore di lavoro del settore privato può comunicare l’avvio dello smart working anche per più lavoratori (comunicazione “massiva”) senza essere obbligato ad allegare alcun accordo con il singolo lavoratore. Alla procedura telematica dovrà essere incluso esclusivamente il file Excel contenente i dati obbligatori richiesti.

Smart working e i cd. “Lavoratori fragili”

I lavoratori fragili sono quei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, in possesso di certificazione, rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita. Tra i lavoratori fragili sono ricompresi anche i lavoratori in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità (ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104/1992).

Per questi lavoratori vi è il diritto, fino al 28 febbraio 2022, a svolgere la prestazione lavorativa in smart working, ai sensi di quanto previsto dall’art. 26, comma 2 bis, del D.L. n. 18/2020, n. 18, come da ultimo modificato dal D.L. n. 221/2021.

Qualora l’attività lavorativa sia incompatibile con il lavoro da remoto, il lavoratore dovrà essere adibito a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti, o allo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale anche da remoto.

Sarà compito dei Ministri della Salute, del Lavoro e della Pubblica Amministrazione, adottare un decreto ove saranno individuate le patologie croniche con scarso compenso clinico e con particolare connotazione di gravità, in presenza delle quali, fino al 28 febbraio 2022, la prestazione lavorativa dovrà essere normalmente svolta in modalità agile.

Green pass e smart working

Il lavoratore che effettua la prestazione in modalità “agile” non deve necessariamente essere in possesso della certificazione verde Covid-19, dal momento che la necessità di possedere un green pass viene meno visto che il lavoratore non dovrà condividere gli ambienti di lavoro con altri lavoratori.

Solo nel caso in cui il datore di lavoro richieda la prestazione lavorativa all’interno dei locali aziendali, ad esempio per una riunione o per motivi formativi da svolgersi necessariamente in presenza, dovrà sincerarsi circa il possesso del green pass da parte del lavoratore, prima di farlo entrare in azienda.

In conclusione, nelle aziende del settore privato una volta verificata la compatibilità dell’attività lavorativa con la prestazione da remoto, non esistono preclusioni ad avviare la modalità in smart working in conseguenza proprio del mancato possesso del green pass.

Differente regime per i dipendenti di una pubblica amministrazione. Infatti, il Ministro per la Pubblica amministrazione, nelle linee guida in materia di obbligo di possesso e di esibizione della Certificazione verde Covid-19 da parte del personale, del 12 ottobre 2021, ha vietato di adibire a smart working i dipendenti sulla base del mancato possesso del green pass o dell’impossibilità di esibire la certificazione verde.

Vaccini libertà di scelta RETTIFICA PARLAMENTO EUROPEO

Vaccini: libertà di scelta

RETTIFICA DEL PARLAMENTO EUROPEO

Ricordando a tutti che un regolamento europeo – a differenza della direttiva – NON deve essere ratificato dagli stati membri, riportiamo che il regolamento 953/2021 del Parlamento europeo è stato rettificato come segue:

“Rettifica del regolamento (UE) 2021/953 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2021, su un quadro per il rilascio, la verifica e l’accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19 (certificato COVID digitale dell’UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19( Gazzetta ufficiale dell’Unione europea L 211 del 15 giugno 2021)Pagina 7, considerando 36, prima frase, anziché:«(36) È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate. Pertanto …»,leggasi:«(36) È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o HANNO SCELTO DI NON ESSERE VACCINATE. Pertanto …». “

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?toc=OJ%3AL%3A2021%3A236%3AFULL&uri=uriserv%3AOJ.L_.2021.236.01.0086.01.ITA